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Piace, piace a tutti lo spot di Chanel. Quello di Marylin, quello della sua dichiarazione d’amore, spontanea, alla fragranza che doveva profumare di donna.
Lo spot è un breve cortometraggio in cui quelle poche gocce di profumo, che Marylin indossava per andare a dormire, diventano lacrime di malinconia che titillano in un’atmosfera autentica e, al tempo stesso, senza tempo.
E’ questo il segreto dello spot: nel colpire, forte, l’immaginazione di ognuno, facendo della realtà sogno. Ciascuno, protagonista del proprio ricordo onirico. Protagonista di un frammento della propria vicenda personale che Marylin, che è la fragranza stessa del profumo, permette di rievocare. Nasce una perfetta confusione tra Marylin e il profumo. Coco Chanel voleva che il suo profumo odorasse di donna e grazie a Marylin il suo desiderio non poteva essere meglio realizzato e l’immagine di questo saldarsi tra donna e profumo non poteva essere meglio resa dallo spot.
Basta vedere Marylin e la mente corre a sognare. Così come quando sentiamo un profumo che, come la sfumatura di un colore in un quadro, come la nota di uno spartito, ci evoca momenti in cui la ragione non va da tempo a rovistare.

C’è chi, vedendo lo spot, è tornato a quel 4 Agosto del 1962. A rivivere quando, bambina, la vita si vestì un po’ di sogno e un po’ di realtà, quella brutta.
Nella mente prorompe il ricordo di quella data quando, mentre a Los Angeles la pelle bianchissima di Marylin illuminata dalla lucentezza delle sue chiome color oro si adombrava di lividi nel tramonto del suo spirito dipartito, dall’altra parte del mondo, la tempia del papà di lei che ricorda si anneriva in un altro tramonto di vita. Senza lasciare il tempo per troppe cose. Consegnando una donna comune all’eternità. Lasciando, a pochi, una ferita inguaribile. Il ricordo riporta alla mente quella mattina, l’ultima, quando nel dormiveglia, che è il ponte tra il sonno e la veglia, vide il padre per l’ultima volta. Senza poter essere più sicura se quel momento fosse mai accaduto veramente. Con le narici che sentiva, però, riempirsi di quella lozione che lui, il padre, amava così tanto e che le lasciò per sempre in quell’ultimo bacio chinandosi su di lei che dormiva alle prime luci del mattino, quelle che prendevano il posto delle pallide notturne.
E dunque lo spot, in quel susseguirsi di fotogrammi, ora a colori, ora in bianco e nero, nello sbiadirsi dei colori stessi per via di una pellicola scampata alla polvere degli archivi, con la voce di Marylin così autentica, fresca e sottile in cui tantissime donne si risentono bambine, colpisce. Colpisce forte l’immaginazione.
Unendo il destino di due vite dai percorsi così distanti e dell’epilogo anagraficamente in comune. Restituisce di Marylin l’ingenuità, il fanciullino con cui si poneva verso la vita, di cui pareva accettare ogni ghirigoro del destino.
E lo fa senza procedere col bisturi della modernità, come fece Warhol, che marcò per sempre i connotati di lei a farne icona da cartellonistica pubblicitaria: le volute gialle dei suoi capelli, il nero del neo, il trucco pesante su occhi e labbra.
Al contrario, nell’atmosfera dei fotogrammi un po’ diafana, ne restituisce un’immagine fragile e complessa, come se il giallo dei suoi capelli mostrasse tutte le sfumature di Rothko. Ne restituisce lo spirito, più eterno dell’icona pop che la gabbia della modernità commerciale le ha affibbiato.
Come farà in futuro Chanel a trovare un nuovo testimonial per i suoi spot? Nessuno può battere uno spirito.

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