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Leggo sempre le analisi del gen. Fabio Mini sul Fatto Quotidiano e così ho fatto anche questa settimana. Cosa ci dice in sostanza il generale, tornando su un suo storico cavallo di battaglia? Ci dice che la strategia occidentale in Ucraina è un disastro, che il presidente Volodymyr Zelensky è destinato a pagare il conto dei suoi fallimenti e che non ha nessuna possibilità di vincere la guerra in atto, mentre il suo Paese è al tracollo ed intere generazioni di cittadini sono state mandate al massacro al fronte.

Queste argomentazioni non vanno trascurate o banalizzate, ma debbono essere seriamente prese in considerazione, anche perché sono numerosi gli osservatori ad avere opinioni simili come Lucio Caracciolo o Alessandro Orsini, che spesso le propone sul medesimo giornale.

Ebbene vorrei dire subito che sono in assoluto disaccordo con questa impostazione e credo quindi opportuno proporre una lettura alternativa, che vorrei articolare su tre punti essenziali.

Il primo dei quali è politico nella sua dimensione internazionale, il secondo è militare nella sua dimensione fattuale, il terzo è sociale nella sua dimensione tutta interna all’Ucraina medesima.

Iniziamo dalla parte politica, con una semplice constatazione: l’Ucraina non ha mai goduto di particolare considerazione a livello internazionale. Men che meno in Europa. Però nel 2022 accade qualcosa che dovrebbe fare riflettere anche Mini: davanti all’invasione russa, sostanzialmente tutti i governi eletti democraticamente del mondo reagiscono a difesa di Zelensky, riuscendo ad accomunare destra e sinistra (Johnson e Biden, ma anche tutti gli altri compresi i “nuovi” come Meloni, Milei e Tusk), vecchia e nuova Europa, Paesi di diversa collocazione nei vari continenti (Australia, Corea del Sud, Giappone).

Ora, poiché è ben evidente che le contese nell’est dell’Ucraina erano affrontabili senza una guerra spaventosa come quella voluta da Putin, non crede il generale Mini che se tutti i leader democratici hanno reagito allo stesso modo (comprese le forze di destra nell’Europa dell’est, ad eccezione di Orban) lo hanno fatto perché l’abnorme decisione russa (rispetto alla portata reale delle questioni) ha finito per spostare molto, ma proprio molto, più in alto tutta la controversia, finendo così per mettere (volutamente) in fibrillazione il mondo intero (con annessi effetti sui mercati di gas e petrolio)? E non crede il generale che questa totale condivisione nell’analisi dovrebbe indurci a capire qualcosa di profondo in questa storia, perché se Sanchez e Duda, Meloni (e Draghi) e Macron, Scholz e Sunak, che sono divisi su molto (o su quasi tutto), si ritrovano in sostanziale accordo sul respingere in armi l’offensiva russa allora vuol dire che hanno capito che la sfida va oltre, ma tanto oltre, il destino di Zelensky e del suo governo.

Punto due, le questioni militari. Lungi da me cercare di dare lezioni a un generale, già Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e comandante della missione Kfor a guida Nato. Però su un punto non credo si possano aprire discussioni: l’offensiva russa (militare, cyber, di intelligence e politica) doveva abbattere la governance ucraina in pochi giorni per far giungere al potere un governo amico di Mosca, operazione che è fallita clamorosamente. Certo la Russia può permettersi oltre 300.000 vittime (stime consolidate a livello internazionale e sostanzialmente confermate dai numeri che lo stesso Putin ha fornito in settimana, partendo dalla sua comunicazione ufficiale dei 617 mila combattenti oggi al fronte) e può permettersi una impressionante perdita di materiale militare grazie al fatto che ha potuto convertire una parte significativa del suo apparato industriale dedicandolo alla produzione di armamenti. Rimane il fatto che il fronte è congelato ormai da un anno: è quindi vero che l’offensiva ucraina non ha portato risultati ma è anche altrettanto vero che nemmeno i russi riescono a fare progressi significativi.

Infine il terzo aspetto, quello tutto interno alla società ucraina. La mobilitazione cui abbiamo assistito non può essere figlia soltanto degli ordini del governo e di un certo nazionalismo patriottico e sentimentale. È evidente che nessun presidente eletto può impegnare in guerra un popolo che non ne vuole sapere. Quello che è accaduto in Ucraina è che la popolazione ha sostenuto il governo (soprattutto nei primi mesi) quando tutto era molto più difficile e le prospettive di un’invasione sull’intero territorio nazionale erano tutt’altro che fantasiose.

Proprio in quella fase la risposta è stata innanzitutto di popolo e non poteva certo uno Zelensky in calo di popolarità imporre a tutti uno scontro per sua mania di grandezza. Certo, la condizione di guerra pesa in modo assai grave su una popolazione provata e su un’opinione pubblica che può dirsi accettabilmente democratica nelle sue espressioni. Quindi è del tutto comprensibile che si vadano manifestando forti sentimenti di delusione e stanchezza. Esattamente quei sentimenti che anche i russi renderebbero visibili se nel loro Paese vi fosse una ancorché minima libertà di espressione. Ma siccome questa è negata in modo brutale e capillarmente applicato noi vediamo (da fuori) la Russia come una realtà monolitica, prospettiva falsata dall’ormai sapiente gestione dell’intera vita politica e culturale della nazione da parte del Cremlino.

Io non so se i leader occidentali si dimostreranno all’altezza delle sfide di questo secolo che sta ribaltando ruoli e posizioni di forza a livello planetario. So però che dittatori di ogni epoca e foggia hanno usato le guerre per rafforzare il loro potere.

A volte hanno fallito, ma spesso ci sono riusciti.

Non dimentichiamolo.

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