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Non foss’altro che per guastare il 2014 a Beppe Grillo, che se lo merita per l’aggressività dei suoi attacchi, Giorgio Napolitano merita l’augurio di chiudere l’anno nuovo con il suo nono messaggio presidenziale. Ciò significherebbe, fra l’altro, una sopravvivenza della legislatura e del governo di Enrico Letta più proficua, o meno accidentata, di quella dimostrata in questo 2013 finalmente agli sgoccioli. Più proficua, o meno accidentata, anche perché diversamente una crisi scoppierebbe per iniziativa del nuovo e sempre più insofferente segretario del Pd Matteo Renzi.

Un altro augurio che merita Napolitano lo rubo un po’ al comune amico Giorgio La Malfa, ex parlamentare e leader repubblicano ormai fuori dalla mischia, che me lo esprimeva qualche giorno fa commentando nei corridoi della Camera la Legge di stabilità finanziaria in misera uscita dall’aula. È l’augurio che, in caso di crisi, il capo dello Stato non ceda né alle elezioni anticipate reclamate da tante parti, né alla tentazione delle sue dimissioni più volte minacciate, ma mandi a Palazzo Chigi lo stesso Renzi.

Vista la crescente e, per certi versi, non del tutto ingiustificata insoddisfazione del sindaco di Firenze per i tempi e i modi in cui Enrico Letta governa, e considerata la larga fiducia con la quale i tanto decantati tre milioni di elettori delle primarie ne hanno determinato l’elezione a segretario del Pd, sarebbe in effetti molto giusto che Napolitano in caso di crisi lo mettesse alla prova.
Un terzo augurio che merita “Re Giorgio” è che qualcuno abbia finalmente il buon senso di insegnare un po’ di storia a Grillo per fargli capire che non è mai esistito in natura il presidente della Repubblica da lui reclamato, notarile e neutro, quando critica rozzamente quello in carica.

Di Enrico De Nicola, eletto capo provvisorio dello Stato il 28 giugno 1946 dall’Assemblea Costituente, l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti soleva appuntarsi, divertito, le continue minacce di dimissioni, ad ogni cenno di contrasto o incomprensione con i governi di Alcide De Gasperi.

Del liberale Luigi Einaudi, eletto al Quirinale l’11 maggio 1948, sono ormai arcinoti i richiami scritti che soleva rivolgere a presidenti del Consiglio e a ministri. E i grattacapi che procurò nel 1953 alla Dc con la nomina del governo “amico” Giuseppe Pella, scalzato dal suo stesso partito in meno di cinque mesi.

Con il democristiano Giovanni Gronchi, eletto il 29 aprile 1955, i governi impararono, fra l’altro, che bisognava garantirsene preventivamente il consenso prima di nominare prefetti e ambasciatori. E la Dc moderata ne subì accelerazioni e pressioni per sostituire i liberali con i socialisti come alleati di governo. Liberale fu, non a caso, il ministro degli Esteri, Gaetano Martino, che ne contestò apertamente una certa tendenza a scavalcarlo nei rapporti internazionali.

Arrivato al Quirinale il 2 maggio 1962 per garantire le correnti scudocrociate che avevano più subìto che promosso l’apertura ai socialisti, il democristiano Antonio Segni fu colpito da ictus invalidante due anni dopo durante un alterco con l’allora ministro socialdemocratico degli Esteri Giuseppe Saragat, presente il presidente del Consiglio Aldo Moro, per le difficoltà frapposte alla conferma del centrosinistra nella gestione di una crisi di governo appena conclusa.

Saragat, succedutogli al Quirinale –proprio lui- alla fine del 1964, si prese e impose l’abitudine di affrontare le crisi ministeriali conferendo gli incarichi di presidente del Consiglio con mandati imperativi, quanto alle formule di governo. Essi erano finalizzati a garantire la partecipazione del suo partito, il Psdi, contro le tentazioni nella Dc di privilegiare i rapporti con il Psi dopo il fallimento della loro unificazione.

Il democristiano Giovanni Leone, eletto al Quirinale alla vigilia di Natale del 1971 dopo una competizione fallita fra i due “cavalli di razza” della Dc Fanfani e Moro, fu costretto dal suo stesso partito e dal Pci, ritrovatisi in una temporanea maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale, a dimettersi sette mesi prima della scadenza del suo mandato. Ciò accadde formalmente per una campagna scandalistica dissoltasi poi nella condanna giudiziaria di chi l’aveva promossa, ma in realtà per avere osato Leone dissentire dalla linea della “fermezza” adottata dalla maggioranza di fronte al sequestro di Moro. Per la cui liberazione egli aveva deciso di concedere la grazia ad uno dei detenuti di cui le brigate rosse avevano chiesto la scarcerazione: Paola Besuschio. Una grazia che Leone non fece in tempo a firmare solo perché preceduto di alcune ore il 9 maggio 1978 dall’assassinio dell’ostaggio.

Il socialista Sandro Pertini, eletto l’8 luglio di quell’anno, procurò nel 1979 alla Dc guidata da Benigno Zaccagini una mezza sincope conferendo l’incarico di presidente del Consiglio al giovane compagno e segretario di partito Bettino Craxi. Che fu faticosamente stoppato sulla strada di Palazzo Chigi, ma per arrivarvi nel 1983, sempre con Pertini al Quirinale.

Il democristiano Francesco Cossiga, succeduto a Pertini nel 1985, fece del piccone il suo simbolo, procurandosi alla fine del mandato dal Pci del pur parente Enrico Berlinguer addirittura un tentativo d’incriminazione per alto tradimento.

Un altro e ultimo democristiano al Quirinale, Oscar Luigi Scalfaro, estese nel 1992 le consultazioni per la soluzione della crisi di governo addirittura al capo della Procura della Repubblica di Milano. Sciolse anticipatamente le Camere due anni dopo, pur disponendo ancora di una maggioranza il governo in carica, presieduto da Carlo Azeglio Ciampi. E a Silvio Berlusconi, uscito a sorpresa vincente dalle elezioni, cercò di dettare in una lettera il programma di governo nominandolo malvolentieri presidente del Consiglio.

Carlo Azeglio Ciampi, il predecessore diretto di Napolitano, impose dal Quirinale nel 2005 una modifica della legge elettorale, appena varata da una maggioranza di centrodestra, per distribuire diversamente il premio di maggioranza fra la Camera e il Senato. Con quali disgraziatissimi effetti, non era francamente difficile prevedere.
La storia, più ancora della cronaca, non consente dunque di presentare Napolitano per quella specie di mostro istituzionale avvertito da Grillo, o scoperto da Berlusconi dopo averne peraltro così fortemente voluto nella scorsa primavera la rielezione: la prima nei 67 anni e mezzo della Repubblica. Se è un mostro, lo sono stati tutti sul Colle più alto di Roma.

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