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E’ molto istruttivo leggere insieme l’ultimo rapporto di Bankitalia sulla ricchezza delle famiglie italiane e il rapporto su reddito e condizioni di vita dell’Istat, che per una di quelle curiose coincidenze sono usciti quasi in contemporanea, offrendoci una fotografia alquanto sfocata e contraddittoria delle condizioni reali del paese.

Da Bankitalia apprendo che, malgrado la profonda correzione dei corsi immobiliari, che ha falcidiato la ricchezza degli italiani, le famiglie del Belpaese, a fine 2012, hanno una ricchezza netta pari a circa 8.524 miliardi di euro, pari a circa 143 mila euro pro capite, di cui il 61,6% derivanti da attività reali (per più dell’80% abitazioni) e per il restante 38,9% da attività finanziarie. Mentre i debiti complessivi ammontano a circa 900 miliardi, più o meno il 10% delle attività complessive.

Allo stesso tempo leggo nel rapporto Istat che, sempre nel 2012, il 29,9% delle persone è a rischio povertà o escusione sociale, l’1,7% in più rispetto al 2011, in gran parte dovuto al notevole incremento della quote di persone severamente deprivate, in crscita dal11,2 al 14,5%. Che vuol dire non essere in grado di fare una settimana di ferie fuori da casa, non poter riscaldare adeguatamente la propria abitazione o non poter sostenere una spesa improvvisa di 800 euro, se necessario, o, peggio ancora, non potersi alimentare adeguatamente consumando proteine ogni due giorni. Ne deriva che il rischio di povertà o esclusione sociale è del 5,1% più elevato della media europea. Peggio di noi stanno solo in Grecia e in alcuni paesi dell’est europeo.

Poi riprendo lo studio di Bankitalia e leggo che malgrado il dimagrimento dovuto alla crisi, la ripresa dei corsi finanziari ha quasi compensato il calo del mattone (-6% in termini reali), portando a un calo della ricchezza netta di appena lo 0,6% rispetto al 2011. E leggo pure che malgrado i cali, registrati dal 2007 in poi, quando la nostra ricchezza netta superava abbondantemente i 9.000 miliardi, siamo ancora nella top ten dei paesi europei, visto che quota circa 7,9 il reddito lordo disponibile, più o meno al livello di Francia, Regno Unito e Giappone, molto meglio della Germania. Per giunta rimangono bassi i debiti delle famiglie rispetto al reddito disponibile, all’82%, “nonostante i significativi incrementi degli ultimi anni”.

Mi sorge il sospetto che in Italia ci sia una profonda sperequazione redistributiva. Allora ritorno sul rapporto Istat e leggo che “il 20% più ricco delle famiglie percepisce il 37,5% del reddito totale, mentre il 20% più povero l’8%”, quasi un quinto. E se guardo l’indice di Gini che misura l’equità distributiva (0 massima equità, 1 massima diseguaglianza), scopro che su scala nazionale, nel 2012, tale indicatore vale 0,32. Quindi nel suo complesso non sembra ci sia tutta questa sperequazione. Il dato però cela importanti differenza. Al Sud l’indice quota 0,33, al nord 0,29. La famosa questione meridionale, penso.

Il combinato disposto di queste informazioni mi fa sorgere il sospetto che qualcosa non quadri. Abbiamo un paese nel suo insieme abbastanza equo, dove perà un sacco di gente non può fare una settimana di ferie. Abbiamo un paese con una ricchezza netta pari a quasi otto volte il reddito, dove però ci sono molti che fanno fatica a comprarsi una bistecca due volte a settimana. Un numero crescente, addirittura.

Ma che ci fanno gli italiani coi soldi?

Torno a Bankitalia e scopro che le famiglie italiane tengono all’estero circa 320 miliardi di attività finanziarie sui circa 3.670 miliardi totali, in aumento di circa il 5% rispetto al 2011. E parliamo solo delle somme censite dalle statistiche.

Scopro pure come sono cambiati i gusti degli italiani in fatto di finanza. Un cambiamento storico. A metà degli anni ’90 gli italiani investivano il 29% della loro ricchezza finanziaria in depositi e un altro 19% in titoli di stato, con punte del 21%. Quindi la metà dei soldi liquidi degli italiani andavano alle banche e allo stato. Pochi rendimenti, ma sicuri.

La rivoluzione finanziaria ha cambiato queste consuetudini: oggi i depositi bancari quotano il 19% del totale e i titoli pubblici appena il 5%. Il totale fa meno della metà di vent’anni fa. Tutto a vantaggio di azioni, fondi obbligazioni e riserve tecniche assicurative. L’aumentato appetito per il rischio ha anche fatto crescere i rendimenti, come si evince dai grafici storici, ma al contempo anche le perdite nei periodi di crisi.

Costante invece la quota destinata al risparmio postale, circa il 31%, che poi è la cassaforte della Cassa Depositi e prestiti. Parliamo di oltre 1.000 miliardi, mica bruscolini.

Ma in queste cifre si annidano altre informazioni interessanti. I depositi bancari capitalizzano circa 660 miliardi di euro, il 93,6% posseduti dalle famiglie, con un ammontare medio pro capite di 14 mila euro. Abbastanza per farsi una bistecca in più, mi pare. Anche perché i conti fino a 50 mila euro ammontavano al 42% del totale, ma, dato assai più rilevante, il 40% di questi depositi è nella forbice fra i 50 mila e i 250 mila, mentre c’è un altro 18% che supera la soglia dei 250 mila euro. Poiché i conti censiti sono 47 milioni, significa che in Italia ci sono 8 milioni e 460mila conti correnti con cifre superiori ai 250.000 euro e altri 18 milioni e 800mila conti correnti con importi compresi fra i 50 mila e i 250 mila euro. Quindi il 58% dei conti correnti italiani ha cifre superiori ai 50 mila euro. E non parliamo di pochi fortunati ricchi: parliamo di oltre 27 milioni di conti correnti intestati a un numero più o meno equivalente di persone.

Se poi andiamo a vedere i titoli custoditi dalle banche, valore circa 550 miliardi, scopriamo che il 96% è detenuto da famiglie e che la quota di depositi titoli superiori a 500 mila euro era solo un punto percentuale inferiore (il 35%) rispetto alla forbice 50mila-250mila euro. Vi risparmio il dato sulla ricchezza patrimoniale e sui conti correnti postali. Basti sapere che parliamo di un’altra montagna di miliardi.

Insomma, non sembriamo un popolo alla fame, ma al contrario abbiamo collettivamente risorse sufficienti a stabilizzare la nostra economia e compensare agevolmente le situazioni di disagio sociale, visto che di fronte a tanta ricchezza pressoché inutilizzata, in Italia e all’estero, l’Istat certifica che aumenta l’esclusione. Abbiamo una disoccupazione al 12 per cento e una montagna di risorse inutilizzate. Questo è un vero spreco, altro che le province.

Solo che non facciamo nulla. Ci lamentiamo e stringiamo la cintura.

Forse il problema dell’Italia non è l’aumento della povertà, che è solo una conseguenza.

Il problema è che anche i ricchi si sentono poveri.

Siamo ricchi, ma poveri

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