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Chip, la rincorsa americana sui semiconduttori avanzati (e non)

Secondo l’ultimo report dell’associazione americana dei chip, la Sia, in partnership con la società di consulenza Boston Consulting Group, entro il 2032 gli Usa recupereranno il terreno perso nella produzione. Grazie al Chips Act, ma serve mantenere l’equilibrio tra mercato e sicurezza nazionale

Dopo aver annunciato gli incentivi federali per i più grandi produttori mondiali di semiconduttori – come Tsmc, Samsung e Intel – si inizia ad intravedere la luce in fondo al tunnel che aveva condotto gli Stati Uniti a perdere, tra il 1990 e il 2022, quote importante nella produzione di chip avanzati. Un trend sicuramente figlio della spinta della globalizzazione e della necessaria specializzazione richiesta dall’industria per mantenere il tasso di innovazione con il progredire della Legge di Moore.

Ma negli ultimi anni, con la pandemia e gli attriti geopolitici con la Cina e nel triangolo strategico con Taiwan, gli Stati Uniti hanno iniziato a percepire le possibili conseguenze da un lato economiche di un mancato accessi ai chip più avanzati (prodotti solamente da Tsmc e Samsung sotto i 7 nanometri), dall’altro per la perdita di leadership in un settore fondamentale per lo sviluppo dell’IA, del supercomputing e di altre tecnologie ritenute critiche per la sicurezza nazionale.

Ma quali sono le previsioni e gli scenari da qui al 2032, in seguito ad un’ondata di politiche industriali che, dagli Usa (Chips for America Act) all’Europa (European Chips Act) passando per Corea, Giappone e Cina (Fondo nazionale per i Circuiti Integrati) per l’industria globale dei semiconduttori? In un report pubblicato nella giornata di ieri, curato dalla Semiconductor Industry Association (SIA) e dal Boston Consulting Group, vengono delineati numeri e stime delle strategie di reshoring e diversificazione, laddove possibile e in linea con le richieste del mercato, della supply chain e nello specifico nei due segmenti più critici dell’industria: quello della manifattura (foundry) e quello dell’equipaggiamento avanzato.

Secondo il report, la capacità di produzione statunitense nel 2032 sarà del 203% più alta rispetto al 2022, la crescita più dirompente se comparata a quella delle altre regioni, inclusa la Corea (129%), l’Europa (124%), Taiwan (97%), Giappone (86%) e Cina (86%). Naturalmente si tratta di una stima che deve tenere conto della base di partenza, considerando che l’80% della capacità foundry mondiale per i semiconduttori meno avanzati (20-45 nm) e il 70% delle forniture dei circuiti integrati più maturi (50-180 nm) è attualmente concentrata tra Taiwan e la Cina. Una concentrazione geografica, soprattutto per i chip logici e di memoria (Taiwan e Corea), che ha suscitato la preoccupazione dei policymakers occidentali e in particolare l’amministrazione Biden.

Con il passaggio del Chips Act (senza il quale le industrie americane sarebbero sprofondate ad un misero 8% del mercato), e dei circa $34 miliardi di incentivi per la localizzazione della produzione compreso un credito fiscale del 25% sui nuovi investimenti in capacità foundry, gli Stati Uniti hanno così registrato una nuova stagione per l’industria nazionale dei chip: dal 2020, 26 nuove fab sono state costruite negli USA rispetto alle 7 a Taiwan, 4 in Giappone e 3 in Corea. Secondo le stime SIA-BCG, entro il 2032 gli Usa attrarranno circa $646 miliardi di investimenti privati, circa il 28% dei flussi di capitali a livello globale per l’industria (in un segmento, quello foundry, che è quello a più alta intensità di Capex rispetto agli altri anelli della supply chain).

Interessante è notare il decoupling sugli investimenti Capex tra Usa e Cina in un settore strategico, ma anche l’assenza di nuovi capitali esteri in Corea del Sud, oltre alla predominanza di investimenti delle aziende come Tsmc e Umc su Taiwan (98%) quando si tengono conto le destinazioni geografiche dei flussi privati che raggiungeranno l’astronomica cifra di $2.3 trilioni (una cifra pari a circa il Pil italiano nel 2022), il triplo rispetto a quanto investito tra i 2013 e il 2022 ($720 miliardi). È chiaro che tale mole di investimenti è anche il frutto di una trasformazione epocale per l’industria dei semiconduttori, chiamata a rispondere alle esigenze di un’economia sempre più trainata dall’intelligenza artificiale.

Tuttavia, la rincorsa statunitense è particolarmente sostenuta sui chip avanzati (sotto i 10 nanometri) dove Corea e Taiwan guidano con le rispettive aziende (Tsmc per i chip logici mentre Samsung per i chip di memoria), che nel 2022 detenevano il 31 e il 69% delle quote di mercato. Secondo le proiezioni, entro dieci anni queste quote si ridurranno al 9 e 47% rispettivamente con la rapida riconquista di posizioni di mercato degli Usa, ma proprio grazie alla localizzazione della capacità di queste aziende sul suolo americano per il mercato nazionale negli impianti in costruzione in Arizona e in Texas. Lo share statunitense, dunque, passerà dallo 0% del 2022 al 28% del 2032, trainato specialmente dal mercato IA.

Ciò nonostante, le capacità complessive (wafer-per-month) coreane su diverse tipologie di semiconduttori (Dram, Nand, discreti, logici) potrebbero sorpassare Taiwan entro il 2032 diventando il secondo produttore mondiale, passando dal 17 al 19% delle quote di mercato.

La “geo diversificazione” di questo segmento è quella più pronunciata e incentivata, mentre in altre parti dell’industria – come il design, dove le aziende con HQ negli Usa come Nvidia, AMD, Qualcomm e Apple controllano il 51% del mercato, EDA & IP – la leadership americana rimane indiscussa nonostante gli sforzi, in particolare quelli della Cina, per rendersi maggiormente autonomi dalla tecnologia americana e occidentale. Più di 3.000 aziende fabless sono attive in Cina, perlopiù a supporto di mercati end-use dell’elettronica di consumo, l’automazione industriale e i veicoli elettrici (specialmente per i sistemi di guida autonoma) ma meno competitive nei mercati delle GPUs e CPUs: per le prime, pesa l’export ban imposto dal Dipartimento del Commercio nell’ottobre 2023 sui chip per l’IA mentre sulle seconde Intel monopolizza sostanzialmente il mercato.

Una diversificazione che sarà molto più complessa per l’equipaggiamento avanzato (un mercato da $110 miliardi) a supporto delle fonderie. Litografia, etching e deposizione sono i tre sub-settori (70% del mercato in valore) più importanti per la produzione dei chip sui wafer di silicio e sono attualmente controllati da aziende nell’orbita occidentale (parliamo di ASML, Applied Materials e un’azienda giapponese). Sono infatti le forti barriere all’ingresso, tra cui l’intensità della R&D sulle vendite e le partnership consolidate tra fornitori e produttori, oltre agli asset tecnologici sottoposto ad embargo (EUV-DUV) a rendere complessa la strada di Pechino verso l’indigenizzazione tecnologica, nonostante i progressi registrati dalle sue aziende su spinta proprio delle restrizioni americane.

Ed è proprio la competizione geopolitica tra Usa e Cina che rimane il grande punto interrogativo sul futuro dell’industria, considerando che buona parte del fatturato dei chipmakers americani è realizzato nel mercato cinese. La SIA si è fatta più volte portatrice della de-escalation tra Washington e Pechino nella ‘guerra’ dei semiconduttori in atto, considerando che a suo dire la leadership tecnologica americana – in particolare nei settori ad alta intensità di conoscenza e R&D, come il design – è stata possibile grazie al dominio del mercato e al conseguente reinvestimento in innovazione.

Se le politiche industriali hanno il potenziale di ridurre la concentrazione in alcuni segmenti – come quello foundry – “certi segmenti della supply chain dei semiconduttori sono a rischio qualora i programmi e le politiche inducano ad investimenti non trainati dal mercato, che possono risultare in iper-concentrazione e sovraofferta” si legge nel comunicato stampa della SIA. Un riferimento che tira in ballo anche Pechino e le sue capacità produttive ai nodi più maturi.

Nel complesso, nonostante i conflitti militari e i ‘cigni neri’ che hanno impattato l’industria in questi ultimi anni, il commercio globale di semiconduttori è aumentato del 43% tra il 2017 e il 2022, con una crescita significativa dell’export di circuiti integrati della Cina che tuttavia rimane ancora con un saldo commerciale negativo (importa più chip che barili di petrolio, in $). L’autarchia in questo settore, dunque, come rivelato in un report del 2021 sempre firmato SIA-BCG, rappresenta un’utopia: l’unico obiettivo, reale, continua ad essere quello del de-risking, cercando maggiore resilienza attraverso cooperazione (seppur selettiva a livello geopolitico) tra le aziende e tra i governi nazionali.


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