Occorre essere pienamente consapevoli della sostanziale impossibilità di risolvere con la bacchetta magica regolamentare tutti i profili che non ci piacciono dei social (e dell’ecosistema digitale), accanto a quelli che vorremmo preservare. Nell’interesse prioritario della democrazia e del progresso civile ed economico. L’intervento di Stefano da Empoli, presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com)
Proprio mentre gli Stati Uniti si preparano al primo anniversario dall’assalto al Campidoglio, avvenuto lo scorso 6 gennaio, Twitter ha deciso nei giorni scorsi di sospendere definitivamente, prima volta in assoluto, l’account di un membro del Congresso, la rappresentante repubblicana Marjorie Taylor Greene, da Rome in Georgia, per violazione delle proprie policy in materia di misinformazione. La decisione ha provocato vasta eco.
Molte le reazioni critiche, non solo tra i repubblicani, che hanno trovato sfogo in primis proprio su Twitter. Glenn Greenwald, giornalista statunitense che nel 2013 raccolse le rivelazioni di Edward Snowden sui programmi di sorveglianza globale messi in atto dalle agenzie di intelligence americane, ha twittato che “avere oligarchi tecnologici non eletti che impediscono a membri del Congresso, o anche a un presidente in carica, di usare le loro piattaforme di massa è distopico”. Un parere condiviso soprattutto al di fuori degli Stati Uniti da molti progressisti, pur lontanissimi dalle idee di Greene e meno immersi nel dibattito statunitense. A preoccupare è il potere dei proprietari di alcune piattaforme social di decidere unilateralmente chi vi ha diritto di parola e chi no.
Anche se, prima di giudicare, occorrerebbe in primo luogo riesaminare la vicenda. Secondo quanto riportato da Twitter, il provvedimento nei confronti di Greene è scattato, come previsto dalle policy in vigore dallo scorso marzo, alla quinta grave violazione, dopo che le erano state notificate le precedenti quattro (l’ultima lo scorso agosto). Tutte legate all’emergenza Covid e in particolare al ruolo dei vaccini.
Già nel luglio scorso, alla congresswoman trumpiana era stato sospeso l’account per 12 ore dopo che aveva twittato che il Covid-19 non era pericoloso per la gente a eccezione degli over 65 e degli obesi e che dunque i vaccini non erano richiesti per la generalità delle persone. Meno di un mese dopo, è arrivata la quarta violazione quando Greene ha affermato che i vaccini stavano fallendo. Infine, sabato scorso la sospensione definitiva, dopo aver evidenziato l’ammontare estremamente elevato di morti derivanti dall’assunzione del vaccino.
Inoltre, va precisato che Twitter non ha sospeso l’account istituzionale della parlamentare, tuttora attivo e con un numero di follower pari a circa 395 mila, ma quello personale, seguito da un numero lievemente superiore di follower (circa 465 mila). I due tipi di comunicazione non coincidono evidentemente (e la stessa Twitter ha confermato come quello istituzionale non ha violato finora le policy della piattaforma) ma il dettaglio non è da poco, in quanto appare difficile sostenere che a Greene sia stata tolta la voce, quantomeno su Twitter.
Anche se questo singolo caso, che segue quello di ben maggiore impatto della sospensione di Trump dai principali social dello scorso gennaio, in seguito proprio al tentato assalto al Campidoglio, è l’occasione per una riflessione più generale sul ruolo delle piattaforme nel contemperare il diritto alla libertà di espressione con altri diritti fondamentali (come quello alla salute o alla sicurezza, in questo caso) e nella funzione che la regolazione e l’enforcement pubblico dovrebbero svolgere rispetto all’autoregolazione decisa e amministrata in autonomia dalle singole aziende tecnologiche. Se quest’ultima può apparire un’eresia nel funzionamento di una moderna democrazia dove i social sono pochi e al contempo costituiscono una piattaforma di comunicazione pressoché essenziale, occorre però valutare con attenzione quanto è avvenuto nel contesto del dibattito statunitense e quali potrebbero essere realisticamente le opzioni alternative (non solo per gli Stati Uniti).
Rispetto al ruolo dei social media nella vicenda Covid e in particolare nella campagna di vaccinazione statunitense, pesano come un macigno le parole di fuoco pronunciate dal presidente Usa Joe Biden lo scorso luglio quando, rispondendo alla domanda di un giornalista, ha affermato che le piattaforme “stanno uccidendo persone”, colpevoli di veicolare la misinformazione online in tema di vaccini e in questo modo di avergli impedito di mantenere forse la principale e più simbolica promessa fatta nei primi mesi alla Casa Bianca, ovvero che il 70% degli americani adulti sarebbero stati almeno parzialmente immunizzati entro il 4 luglio, l’Independence Day, data altamente simbolica nell’immaginario collettivo del Paese.
Le risposte delle piattaforme, e in particolare di Facebook, che appariva il principale bersaglio (anche perché quella con il più largo seguito), non si è fatta attendere. Numeri alla mano, Guy Rosen, responsabile per l’integrità del colosso di Menlo Park, ha ricordato in un post di replica alle parole di Biden che, tra gli utenti americani di Facebook, i favorevoli al vaccino erano aumentati da gennaio tra i 10 e i 15 punti percentuali (passando dal 70% all’80-85% e dunque superando la media rilevata dai sondaggi per l’intera popolazione americana). Risultato, secondo Rosen, dell’impegno del social contro le fake news legate ai vaccini.
Tenuto conto che si tratta di fenomeni estremamente complessi da indagare, se è vero che a distanza di più di cinque anni non è ancora del tutto chiara l’influenza esercitata dai social sui risultati del referendum che portò alla Brexit e delle presidenziali che elessero Donald Trump, quel che è certo è che, negli Stati Uniti ancor più che altrove, le piattaforme si trovino sempre più strette nella morsa simmetricamente opposta di democratici e repubblicani. Con i primi convinti che le piattaforme propaghino la misinformazione, contribuendo a mettere in dubbio la scienza, e i secondi che vedono nelle stesse una crescente compressione del pluralismo, a vantaggio del politically correct e della cultura “woke”.
Dunque, i primi le vorrebbero più interventiste, i secondi meno. Questa evidente spaccatura è il motivo principale per il quale, nonostante le grandi imprese di Internet attraggano sempre più critiche anche negli Usa e una maggioranza bipartisan di parlamentari condivida che i bulloni della regolazione vadano stretti di molto, il Congresso sia tuttora molto diviso su come procedere concretamente. Mentre, a fronte dell’inerzia di Washington, fioccano le iniziative nei singoli Stati dove maggioranze spesso più ampie, a favore dell’uno o dell’altro, e la presenza più limitata di check & balances consentono di rompere più facilmente la situazione di stallo. Con il risultato, però, che mentre in Florida e Texas, a solida maggioranza repubblicana, si mettono paletti contro la presunta censura social, nello stato di New York si sta cercando di rendere più responsabili le piattaforme che propagano fake news (di fatto disapplicando la sezione 230 del Communications Decency Act del 1996, che esonera le piattaforme da responsabilità di tipo editoriale e che, per inciso, per molti è alla base dell’enorme sviluppo di Internet e del relativo ecosistema economico).
In attesa che anche il sistema giudiziario si pronunci (fino all’inevitabile intervento della Corte Suprema), occorre chiedersi se il potere delle piattaforme, più che testimoniare l’esercizio di una sovranità imperiale, come viene descritta da molti osservatori (da ultimo in Italia Stefano Mannoni e Guido Stazi nel loro saggio Sovranità.com. Potere pubblico e privato ai tempi del cyberspazio, pubblicato da Editoriale Scientifica), sia in realtà una patata bollente che contribuisce a minarne credibilità e reputazione (in virtù dell’ampia impopolarità di qualsiasi decisione, o non decisione), indotta da una politica inefficace e inconcludente. Che di fatto attribuisce alle piattaforme una responsabilità che per molti anni queste ultime (con qualche ragione, visto quanto accaduto successivamente) hanno preferito non assumersi.
Naturalmente, al di là dei diversi punti di vista, la mera sostituzione dell’autoregolazione con una più stringente regolazione pubblica (qualunque forma essa assuma) non risolverebbe tutti i problemi. Anzi, se non ben congegnata, rischierebbe perfino di aumentarli. La comparsa di quello che potrebbe pericolosamente assumere i contorni di un ministero della verità rischierebbe di aggravare la distopia, anziché attenuarla. E, nei Paesi democraticamente più fragili, potrebbe accelerare la transizione verso nuovi autoritarismi. Per questo motivo, è forse consigliabile, per tornare sul punto, che la regolazione riguardi maggiormente il processo che il merito di eventuali provvedimenti sospensivi.
Costituisce infatti senz’altro interesse generale assicurarsi che la sospensione di un account avvenga per giustificati motivi (in base alle policy seguite dalle singole piattaforme, preventivamente note agli utenti) e sulla base di una procedura codificata e trasparente (alla quale ci si possa appellare). Tanto più se riguardano un politico, sia pure con due importanti caveat.
Se è vero infatti che chi è eletto dai cittadini svolge un ruolo istituzionale essenziale in un ordinamento democratico, è anche vero che chi li rappresenta (e ne riceve uno stipendio) dovrebbe avere speciali obblighi nel comunicare informazioni quantomeno non facilmente falsificabili. In secondo luogo, come giustamente osserva Antonio Nicita nel suo recente saggio Il mercato delle verità. Come la disinformazione minaccia la democrazia, edito da il Mulino, non è del tutto chiaro per quale motivo, mentre la regolazione pubblica mette in campo da decenni una serie di paletti contro comunicazioni false se queste avvengono nel mercato dei beni (pensiamo solo alla pubblicità ingannevole), non ce ne debbano essere in quello ben più complesso delle idee, in larga parte più estraneo all’esperienza e alle conoscenze dirette del cittadino comune.
In Europa, questo delicato equilibrio tra obiettivi e strumenti diversi sembra più a portata di mano, con il Digital Services Act attualmente in discussione in Parlamento europeo, che dovrebbe diventare legge entro il 2022. Purché, sia nella fase precedente l’approvazione che in quella di attuazione del provvedimento, si sia pienamente consapevoli delle enormi complessità delle questioni sottostanti e della sostanziale impossibilità di risolvere con la bacchetta magica regolamentare tutti i profili che non ci piacciono dei social (e dell’ecosistema digitale), accanto a quelli che vorremmo preservare. Nell’interesse prioritario della democrazia e del progresso civile ed economico.