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Che fine fanno i lobbisti dopo aver fatto i lobbisti? è una domanda molto meno scontata di quanto possa sembrare a prima vista. Solamente una minima parte sparisce definitivamente dai radar perché arriva a godersi la meritata pensione. Sono molto più numerosi i casi di mobilità professionale: dal privato al pubblico per esempio. Oppure da un’azienda all’altra. Il fatto è che anche in sistemi a elevato grado di trasparenza come quello statunitense procedere a una mappatura completa di tutti questi spostamenti è molto difficile.

Ed è una difficoltà che ora ha una prova scritta. A marzo 2013 il Center for Responsive Politics ha pubblicato il rapporto “Lobbyists 2012: out of the Game or Under the Radar?” in cui studia l’evoluzione del numero di lobbisti registrati a Washington (lo trovate Qui). Lo studio mette in luce proprio la discordanza tra l’apparenza, offerta dai dati, e la realtà, che si desume dai fatti.

 

Il dato apparente è che il numero complessivo di lobbisti accreditati è in netta diminuzione. Negli ultimi 5 anni i lobbisti di Washington sono diminuiti del 25%. In altre parole, uno su 4 è andato “in sonno” (a fronte di una riduzione tutto sommato modesta del budget dedicato al lobbying da parte delle prime 100 aziende statunitensi: appena il 6%). A leggerlo così si direbbe che il mestiere sta attraversando un periodo di crisi profonda.

Il rapporto però suppone che la diminuzione non fotografi la realtà. Il numero di lobbisti entrati in sonno – spiegano quelli del centro – è diminuito in corrispondenza all’approvazione dell’Honest Leadership and Open Government Act del 2007 – atto che introduceva misure particolarmente stringenti per i lobbisti, per evitare il ripetersi di scandali come quello che aveva coinviolto Jack Abramoff – e, più tardi, in concomitanza con le nuove misure restrittive introdotte dall’amministrazione Obama nei confronti dei lobbisti.

I risultati delle norme più severe sono tangibili: nel 2007 si deattivarono dal registro 3400 lobbisti. Nel 2012 1732. In realtà, spiega OpenSecrets, la riduzione non indica affatto una diminuzione del numero dei lobbisti. Molti di loro continuano ad esercitare la professione, badando a rispettare le condizioni che la legge pone per non soggiacere all’obbligo di registrazione. L’esempio tipico (ma non è il solo) è il limite del 20% dell’attività svolta, che non è soggetta ad alcun obbligo di pubblicità.

Sicché, a conti fatti, dei lobbisti deattivati nel 2012 circa la metà – il 46% – lavora per lo stesso datore di lavoro. Il 15% ha cambiato datore di lavoro ma è rimasto nello stesso ramo produttivo. L’11% ha cambiato ramo produttivo. Il 5% ha un incarico governativo. Esclusa la percentuale di coloro i quali sono andati in pensione (1%) o sono deceduti (2%) soltanto del 20% non è chiara la destinazione.

La scoperta del Center dimostra due cose. Primo: anche il registro a iscrizione obbligatoria non offre garanzie certe sulla trasparenza. Da solo non basta. Secondo: non necessariamente una disciplina più severa produce l’effetto desiderato. Il caso americano dimostra in modo chiaro l’effetto contrario (e cioè la fuga di molti lobbisti dalla trasparenza) ottenuto da due interventi legislativi a carattere “repressivo”.

Lobbisti a Washington, i conti non tornano

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