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L’economia non è un gioco ma i giochi possono aiutare l’economia. I sostenitori delle teorie di Adam Smith, di John M. Keynes e di Karl Marx hanno un solo grande comune denominatore: la ricchezza (o la crescita, come diremmo oggi) non si raccoglie dagli alberi ma è frutto del lavoro, dell’impresa. Immaginare di poter aumentare il Pil solo con una deroga alle rigide clausole europee è come pensare alla coperta senza avere un letto, un materasso. Lo sviluppo in Italia potrà realizzarci se ci saranno attività produttive competitive. Purtroppo però sul nostro Paese soffia, e ormai da tempo, un vento anti-industriale che rischia di causare danni più ingenti di quelli registrati con il drammatico tornado in Oklahoma.

Ilva, Muos, Tav, Ombrina: sono solo alcune delle sigle che richiamano a battaglie di natura diversa ma con una matrice comune. Il sentimento di pregiudizio negativo nei confronti di settori come quelli della difesa, delle infrastrutture, dell’industria pesante, del tabacco è in questi anni molto aumentato. La consapevolezza circa l’importanza degli impatti sanitari e ambientali nelle singole attività è stata confusa con la presunta necessità di bloccare ogni investimento. Questo approccio danneggia non marginalmente la nostra economia, le imprese italiane e i lavoratori.

Un nuovo caso di sensazionalismo mediatico (e politico) riguarda il comparto dei giochi. Mezzi di informazione e formazioni parlamentari hanno preso gusto a emettere sentenze di condanna contro quello che chiamano gioco d’azzardo non riferendosi però alle organizzazioni criminali che operano fuori della legalità ma chiamando in causa imprese (nazionali) come Lottomatica e Sisal che sono peraltro divenuti player del settore a livello globale riuscendo a conquistare mercati esteri. Queste aziende, che non abbiamo remore a citare per nome e cognome, producono utili ma anche occupazione, ricerca e innovazione, entrate fiscali e, non da ultimo, sostegno alla cultura italiana.

Poiché nessun pasto è gratis, non si può nascondere che il boom dei giochi e la loro emersione dal grande calderone del “nero” ha generato sì un gettito erariale fondamentale ma ha anche evidenziato alcune problematiche. Alcune di queste riguardano la regolamentazione del settore e l’accesso a soggetti non sempre trasparenti (come sono invece le grandi aziende italiane). Il tema tuttavia più critico riguarda la ludopatia, la dipendenza dal gioco. La questione è serissima e non sarebbe giusto sacrificarla sull’altare del business ma altrettanto sciocco sarebbe fare l’errore opposto. Le dipendenze da alcol o dalla rete sono fenomeni non meno rilevanti ma nessuno si sognerebbe di vietare la vendita degli alcolici o l’accesso alle chat o ai social network.

Con buon senso ed una migliore regolazione si può contrastare la ludopatia e correggere gli aspetti che risultassero controversi nella gestione pubblica del settore dei giochi in capo all’Aams. Sarebbe esiziale però rincorrere i singoli, pur gravi, casi di cronaca e lanciare l’ennesima caccia alle streghe. I competitor stranieri e soprattutto la criminalità organizzata (che altro non aspetta che tornare a gestire gli affari delle scommesse) sono pronti a raccogliere gli effetti – per loro positivi – della nuova crociata. Siamo così sicuri che ne valga la pena? Ad Enrico Letta, ai ministri Saccomanni, Zanonato, Orlando e Lorenzin, al presidente di Confindustria e ai segretari di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, ci permettiamo di suggerire una più forte e chiara difesa dell’industria italiana tutta, quella che ovviamente opera nella legalità e in una visione contemporanea di sostenibilità. Su questo non possiamo permetterci di giocare.

Non giochiamo con i giochi (e l'industria)

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