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C’è un pinguino con una maschera antigas disegnato su un muro. È una delle migliaia di immagini che circolano su Twitter sulla rivolta contro il primo ministro turco, Racep Tayyip Erdogan, e che prende come bersaglio il documentario sui pinguini andato in onda sulla Cnn Turk mentre le manifestazioni e i primi scontri scoppiavano a piazza Taksim, attirando l’attenzione della stampa mondiale.

Ricorda Piotr Zalewski su Foreign Affairs che negli ultimi anni la Turchia si è distinta come uno dei Paesi più difficili per giornalisti. Secondo l’organizzazione Reporter Sans Frontier sono 33 i giornalisti incarcerati nel 2013. Ancora in questi giorni l’associazione ha denunciato gli arresti arbitrari e le violenze contro i giornalisti che coprivano le proteste di OccupyGezi. Nella classifica sulla libertà della stampa stilata sempre da Rsf il Paese si colloca al 154esimo posto.

Come si legge nel rapporto 2013 di Amnesty International “scarsi sono stati i progressi per ridurre le limitazioni alla libertà d’espressione per i mezzi d’informazione e, più in generale, per la società civile. I procedimenti penali hanno spesso preso di mira chi esprimeva dissenso in modo non violento, soprattutto su temi politici controversi, e chi criticava funzionari e istituzioni pubbliche”.

Il governo motiva la maggior parte degli arresti con ragioni che niente hanno a che fare con la libertà d’espressione. La maggior parte dei reporter in carcere è curdo, pertanto accusato di legami con il Paritto dei lavoratori curdi di Pkk, considerato da Ankara un’organizzazione terroristica.

Nota tuttavia Zalewski che le titubanze della stampa turca nel coprire le proteste sono un riflesso di quello che in Italia si chiama conflitto d’interessi e che lega gli editori della stampa mainstream con il potere.

Oggi l’AKP di Erdogan, ieri i militari. Così gli investimenti degli editori in altri settori toccano campi in cui il governo è spesso uno dei principali committenti: costruzioni, miniere, porti. I contratti sono stimanti in miliardi di dollari e il processo per ottenere le commesse è descritto come “opaco”.

Uno dei casi portati come esempio di questa commistione sono i 460 milioni di euro (interessi esclusi) fra multe e tasse arretrate evase che il gruppo Dmg del magnate della stampa, Aydin Dogan è stato condannato a pagare nel 2010. Un procedimento che l’interessato ha sempre collegato a una serie di articoli pubblicati dai suoi giornali su presunti casi di corruzione che avrebbero visto implicato il Partito per la Giustizia e il Progresso di Erdogan.

Ma come i casi di corruzione che lambiscono l’AKP sono argomento tabù oggi, in passato lo sono stati temi cui i repubblicani laici volevano si tacesse: il genocidio armeno del 1915, la questione curda o lo stesso ruolo dei militari.

Turchia, conflitti e intrecci fra Erdogan e la stampa

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