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Oggi nel mondo ci sono più di quindici milioni di palestinesi, di cui oltre sei milioni registrati come rifugiati presso l’Unrwa. Più della metà vive fuori dalla Palestina storica, sparsa tra Giordania, Libano, Siria e altri Paesi arabi, in campi che sono città senza cittadinanza.

Chi è stato in uno di quei luoghi lo sa: la linea che separa l’interno e l’esterno non è solo fisica, è sociale, economica, simbolica. Io stesso, anni fa, ho visitato il campo di Ein el-Hilweh, vicino a Sidone, in Libano. Bastano pochi passi per vedere il confine invisibile tra un mondo e un altro: all’esterno la normalità faticosa di un Paese in crisi, all’interno un dedalo di vicoli dove la vita resta sospesa, dove si cresce aspettando qualcosa che non arriva mai.

La pace firmata a Gaza non tocca queste vite.

Non parla ai palestinesi che vivono nei campi del Libano, né ai giovani cresciuti in Giordania, né a chi a Damasco tenta di ricostruire il campo di Yarmouk distrutto dalla guerra siriana.

Non parla ai bambini che non conoscono altro linguaggio che quello dell’assedio o del check-point. Eppure sono loro, più di chiunque altro, a costruire – o a distruggere – il domani.

Perché la memoria è un seme.

E ciò che oggi vivono quei bambini – da una parte e dall’altra – rischia di germogliare fra qualche anno come nuova forma di radicalismo. È già accaduto. Intere generazioni di militanti, di terroristi, di estremisti sono nate dall’infanzia traumatizzata della sconfitta e dell’umiliazione.

Il Settembre Nero del 1970 nacque dal rancore accumulato nei campi profughi della Giordania, dove l’esilio era diventato identità. Le seconde intifade furono il frutto di un ricordo: non di un ordine politico, ma di un dolore trasmesso come eredità.

La pace di oggi – ammesso che si possa ancora usare quella parola in senso pieno – rischia di essere una tregua tra generazioni adulte, mentre sotto cresce un mondo di adolescenti che hanno visto solo distruzione.

Chi a Gaza ha perso un genitore sotto le bombe o ha vissuto la fame, chi in Israele ha temuto di non rivedere un familiare rapito, porterà con sé un tipo di memoria che non dimentica: quella dell’ingiustizia.

E la memoria dell’ingiustizia è il più potente carburante politico del futuro.

Nel frattempo, anche dentro Israele si intravedono derive radicali: non solo nelle frange religiose più estreme, ma in un crescente sentimento di sospetto e ostilità verso ogni compromesso.

Così, il rischio è che la pace di oggi prepari la polarizzazione di domani, in cui la reazione genera la reazione, e la vendetta prende il posto della memoria civile.

Un conflitto congelato, non risolto.

Per questo l’accordo attuale – per quanto vada salutato come un passo vitale per le vite da salvare – non chiude nulla. Sospende, forse, l’urgenza militare, ma non tocca il cuore del problema: la frammentazione palestinese e la necessità di un progetto di vita collettivo che vada oltre il controllo territoriale.

L’Autorità Nazionale Palestinese cerca oggi di ritagliarsi uno spazio nella gestione di Gaza, ma deve prima ritrovare la propria credibilità: politica, economica e morale. E i Paesi mediatori, dal Qatar all’Egitto, dovranno capire che non si costruisce pace con la sola diplomazia, ma con le istituzioni civili, con le scuole, con le strade, con la speranza. Non basta la smilitarizzazione. Serve la socializzazione. Non basta il ritiro delle truppe. Serve la costruzione di una memoria diversa.

La vera sfida comincia adesso: evitare che i bambini di oggi diventino i combattenti di domani. La pace non si difende con gli eserciti, ma con la fiducia. E la fiducia, quando si è nati nella paura, si insegna soltanto con l’esempio. Ed è qui che entra in gioco la responsabilità internazionale.

L’Europa, e con essa l’Italia, hanno la possibilità – e il dovere – di contribuire non solo con aiuti umanitari o mediazioni diplomatiche, ma con un progetto di normalizzazione economica e culturale capace di durare nel tempo.

Sostenere scuole, università, reti di lavoro e microimprese nei territori palestinesi e nei campi della diaspora non è beneficenza: è strategia di pace. E favorire lo scambio culturale tra giovani israeliani e palestinesi significa ricostruire un linguaggio comune prima ancora di un confine.

La pace, quella vera, sarà opera delle generazioni che oggi guardano le macerie con gli occhi aperti. Sta a noi, europei, offrire loro un futuro che non debba nascere dal ricordo del dolore.

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