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Nell’Italia post-sessantottesca capitò addirittura di ascoltare dalla bocca di un ministro del Lavoro l’immaginifica teoria del salario variabile economica indipendente. Col tempo anche gli spiriti più massimalisti riconobbero l’insostenibilità di quell’assunto, che venne presto archiviato con il dovuto compatimento che si riserva alle tesi più bislacche. Da allora, nessuno rilancia più, alla lettera, la formula “variabile indipendente”. Ma, nei fatti, quel principio anti-economico non è mai svanito, semmai ha visto moltiplicarsi anno dopo anno, forse giorno dopo giorno, i temi, gli argomenti e i modelli su cui esercitarsi.

La materia che più si presta alle applicazioni e alle incursioni da parte dei teorici occulti (e neppure tanto) della “variabile indipendente” si chiama debito pubblico. Intendiamoci. Nessuno ha il coraggio di sfidare il buon senso, oltre che i sacri testi accademici, proclamando papale-papale che il debito è una variabile indipendente. Ma, sotto sotto, il retropensiero di chi invoca manovre economiche sempre più espansive, votate alla crescita (come se il risparmio fosse sinonimo di decrescita) e indifferenti ai conti pubblici in rosso, resta inesorabilmente quello: il debito pubblico è una variabile indipendente. Il buon Mario Draghi, che conosceva e conosce come le sue tasche le debolezze della classe politica italiana, cercò di metterci una pezza, distinguendo tra debito buono (spesa per investimenti infrastrutturali) e debito cattivo (spesa per fini clientelari ed elettorali), ma la sua moral suasion durò come la vita di un gatto in tangenziale. Nulla da fare. La voglia di spendere e spandere è più irresistibile di una merenda con barattoli di nutella. Ne sa qualcosa l’attuale presidente della Consiglio che, pur avendo invitato i suoi ministri alla sobrietà e all’autodisciplina, ha dovuto arrendersi all’idea di una manovra economica meno rigorosa di quanto avrebbe voluto, perché, in non piccola parte, sarà finanziata a debito. Certo, le raccomandazioni all’autocontrollo ministeriale proferite da Giorgia Meloni si sono scontrate con le aspettative crescenti di spesa pubblica generate dal clima elettorale (tra nove mesi si vota per le europee), il che forse avrebbe fiaccato persino la proverbiale intransigenza del piemontese Quintino Sella (1827-1884), il più rinomato sacerdote del pareggio di bilancio della storia italica. Ma, siccome nella Penisola si vota ogni anno, tra europee, politiche, regionali, amministrative e altro ancora, non resta che mettersi l’anima in pace: per colpa, o a causa, delle campagne elettorali permanenti, la battaglia per ridurre il debito in Italia è destinata a risultare più improba e improbabile della conversione di Vladimir Putin ai valori della democrazia e della tolleranza. Fatica sprecata, olé.

E meno male che c’è l’Europa a ricordarci che il debito è più illusorio e ingannevole del doping. E meno male che c’è l’Europa a vigilare sui nostri numeri e a ricordarci che tutti i soci di una comunità hanno il diritto-dovere di esaminare/giudicare anche le uscite e le entrate degli altri soci. E meno male che c’è l’Europa a sottolineare che i patti e i trattati vanno sì riveduti, ma non ribaltati, e che il solo prefigurare un’Unione in cui ciascuno sia libero di fare quello che vuole equivale a un De Profundis per il sogno unitario che fu di Alcide De Gasperi (1881-1954) e Konrad Adenauer (1876-1967). E meno male che c’è la Bce a ribadire che l’inflazione non va adulata o alimentata, perché costituisce la stangata più odiosa ai danni della povera gente. Certo, Draghi, a Francoforte, disattese il dovere statutario della Bce di non cadere nella tentazione di monetizzare il debito, ma venne meno a questo principio perché era in ballo la sorte dell’euro e dell’Europa medesima. Di sicuro l’acquisto di titoli pubblici dei singoli Paesi da parte della Bce non avrebbe potuto e dovuto prolungarsi all’infinito, pena, strada facendo, un’impennata dei prezzi da destabilizzare l’intero continente.

Invece, qual è la dottrina oggi dominante? Facile: il debito fa bene, il risparmio fa male. Ora. A parte la considerazione, ovvia, che il debito odierno è la tassazione di domani, il che sfugge persino agli animi più sinceramente solidali, a quelli più preoccupati per l’avvenire delle nuove generazioni, resta inevasa la domanda più naturale: se davvero il debito fa miracoli per la crescita di una nazione, perché non approfittarne per farne ancora di più? E perché gli altri Paesi prestano più attenzione del nostro al proprio bilancio quando basterebbe loro, secondo certe scuole di pensiero, incrementare la spesa per assicurarsi mirabolanti risultati di crescita economica?

I più raffinati tirano in ballo, per la loro causa, l’autorità di un gigante come John Maynard Keynes (1883-1946), sostenitore della funzione del consumo come motore dello sviluppo di una comunità. Ma la terapia keynesiana non si doveva applicare, nelle intenzioni del suo autore, in tutte le circostanze. Un conto sono i periodi di depressione o di eccessiva tesaurizzazione, periodi che non attivano i consumi. Un conto sono i periodi in cui i consumi non sono in pericolo. E poi. Chissà cosa avrebbe detto l’economista inglese di fronte a spirali di debito pubblico salite al di là di ogni immaginazione, lui che consigliava politiche espansive delimitate per cicli, non certo da attuare a tempo indeterminato. La verità è che solo il risparmio di oggi garantisce i consumi e gli investimenti di domani, una lezione che larga parte del ceto politico è portata a rimuovere con la stessa smorfia di fastidio e di insofferenza che ciascuno prova di fronte a una vespa particolarmente molesta.

Non invidiamo Giorgia Meloni, alle prese con il pressing arrembante di Matteo Salvini e di parecchi suoi ministri di manica larga. Per venirne fuori, le rinnoviamo un consiglio già lanciato su queste colonne. Vada in tv, parli al Paese e spieghi a tutti gli italiani quali sono i pericoli di lesa sovranità per un Paese iper-indebitato, Paese che ora desta più apprensione della vicina Grecia, avviata a un risanamento intelligente e tendenziale. Smascheri, la presidente del Consiglio, l’insostenibile pesantezza del debito pubblico, un macigno, anzi un vulcano che non fa sconti e che potrebbe esplodere con più fragore dell’inquieto Vesuvio. Un rischio fatale, da prevenire senza esitazioni.  I mercati ci guardano e votano ogni giorno.

L’insostenibile pesantezza del debito pubblico italiano

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