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Di recente due leader europei hanno segnalato un cambio di passo in materia di politiche green. La scorsa settimana il primo ministro britannico Rishi Sunak ha rimandato il blocco alla vendita di nuove auto a combustione interna al 2035, allineandosi al limite deciso dall’Unione europea. E anche a Bruxelles, annunciando l’avvio di un’indagine sulle distorsioni di mercato causate dai veicoli elettrici cinesi, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (in odore di ricandidatura) ha promesso di avviare un dialogo con l’industria per snellire la legislazione verde – in seguito alla sostituzione del padre del Green Deal europeo Frans Timmermans con il più cauto Maros Sefcovic, che si è subito dimostrato attento all’impatto della transizione sui posti di lavoro e sulla crescita europea.

Entrambi i leader volevano dimostrare la loro volontà di rendere la transizione meno ostica, rallentare il ritmo e ammorbidire le misure dopo anni di ambiziosi salti in avanti sul fronte della decarbonizzazione. Non è un caso: come rileva l’ultimo rapporto dell’European Council on Foreign Relations, il momento è molto delicato per quanto riguarda le politiche climatiche. Nel 2021 il caro-bolletta era indicato come un problema in 15 Stati membri su 27, mentre i cittadini di 10 Paesi esprimevano preoccupazione per il declino del tenore di vita (due variabili fortemente correlate secondo i dati Ecfr). Oggi, dopo la guerra energetica condotta dal presidente russo Vladimir Putin contro l’Europa e gli sforzi dei Paesi impegnati nella diversificazione dagli idrocarburi russi, quelle cifre sono cresciute a 22 e 15, rispettivamente.

Non sono numeri incoraggianti considerando che ci si avvia verso una fase di implementazione del Green Deal politicamente più impegnativa, scrivono gli autori. Settori come l’edilizia e i trasporti “dovranno adattarsi, con maggiori costi a carico delle famiglie e dei singoli individui”, e i responsabili politici “dovranno spiegare in modo convincente all’opinione pubblica europea perché questi costi devono essere sostenuti” dalla collettività. Alla luce dell’agguerrita competizione tra Cina e Usa e della necessità dei governi di ricorrere a sovvenzioni per aiutare le aziende, “la necessità per le imprese europee di diventare ecologiche per rimanere competitive è considerata una sfida in molte capitali nazionali”. Sta ai politici europei convincere gli elettori che la transizione verde rimane nel loro interesse, anche in vista delle elezioni europee e di diverse elezioni nazionali nel 2024.

Gli elettori polacchi, chiamati alle urne il prossimo 15 ottobre, potranno offrire un’anticipazione di quanto può accadere altrove. A Varsavia manca una strategia coerente per la politica energetica nazionale, spiega un altro recente rapporto Ecfr, e sebbene le politiche climatiche non siano al centro della campagna elettorale anche i polacchi sono fortemente preoccupati sui versanti caro-bollette e tenore di vita. Questo è il momento migliore per sensibilizzare l’opinione pubblica su questi temi cruciali, spiega l’autore, perché la transizione dal carbone dovrebbe essere al centro delle politiche governative indipendentemente dal risultato: si tratta, in ultima analisi, di rinforzare la sovranità energetica nazionale.

Questo è il focus del terzo e ultimo rapporto portato all’attenzione del pubblico dagli esperti Ecfr. La sovranità energetica è tornata a essere un problema rilevante dall’invasione russa dell’Ucraina, ma finora gli Stati membri “hanno considerato questa sfida principalmente attraverso la lente dell’accesso alle risorse energetiche […] per mantenere la sicurezza degli approvvigionamenti”. Ma secondo gli autori, la profonda incertezza geopolitica e la minaccia del cambiamento climatico “impongono ai decisori politici di adottare una concezione più ampia della sovranità energetica, incorporando il ruolo dell’energia verde e promuovendo un uso efficiente dell’energia”.

Per illuminare tutti i versanti della transizione e indicare la strada verso un approccio più olistico, il think tank paneuropeo ha predisposto un “Indice di sovranità energetica”. Lo strumento considera quanto è “pulito” il mix energetico di un dato Paese, quanto questo dipenda dalle importazioni di energia, il grado di efficienza (ossia quanta energia viene dispersa) e lo stato di salute del dibattito pubblico sulla sovranità energetica. Il quadro che ne emerge “è un mosaico variopinto”, scrivono gli autori, che suddividono gli Stati membri in quattro gruppi distinti – i decarbonizzatori indipendenti, i sovranisti emergenti, i Paesi dipendenti e i ritardatari.

L’Italia può trarre solamente un pizzico di soddisfazione dall’essere individuata nel terzo gruppo, i Paesi che stanno andando “ragionevolmente bene” – nel senso che “bilanciano la loro significativa dipendenza dalle importazioni di energia con notevoli risultati in almeno un’altra categoria”, che nel nostro caso è l’efficienza energetica – ma potrebbero “intensificare gli sforzi per raggiungere una maggiore sovranità energetica”. Voto 5.6/10 sulla “pulizia” della nostra energia, 2 sull’indipendenza, 7.5 sul discorso pubblico e un eccellente 8.9 sulla dispersione di energia, un 5.7 complessivo. Il Belpaese è tra gli ultimi in Europa: ora sta ai nostri decisori politici vendere all’elettorato una strategia per rafforzare la sovranità energetica grazie a – e non a scapito della – transizione.

Immagine via Epg

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