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La Cina è riuscita a costruire un network portuale disteso in oltre 50 Paesi. Questi investimenti lungo alcune delle principali vie navigabili del mondo potrebbero avere anche implicazioni militari significative, mentre Pechino si trova ancora in una condizione di inferiorità rispetto alle capacità convenzionali statunitensi — per altro messe in atto anche in questi giorni con la mobilitazione simultanea di  quattro gruppi da battaglia, due nel Mediterraneo allargato e due nell’Indo Pacifico.

Dieci anni fa, il presidente cinese Xi Jinping lanciò la Via della Seta marittima, la componente oceanica dell’infrastruttura geopolitica Belt & Road Initiative: era pensata per migliorare l’accesso della Cina ai mercati mondiali investendo nelle infrastrutture di trasporto. È un altro volto del sea power, che comunque Pechino sta continuando a sviluppare anche secondo il senso più classico, militare tradizionale, rafforzando la flotta dell’Esercito popolare di liberazione a ritmi intensi.

Controllo dei mari

È vero che nel corso del decennio gli investimenti sulla Bri sono rallentati, la crescita cinese indebolita (il Paese è attualmente in una fase di disinflazione), e che diversi dei Paesi della Bri hanno messo in discussione l’indebitamento comportato dai progetti. Ma la Cina si è già assicurata una partecipazione significativa in una rete di porti globali – che comprende anche terminale tra gli scali di Trieste e Vado Ligure – che sono fondamentali per il commercio mondiale e la libertà di navigazione.

Sebbene l’obiettivo dichiarato degli investimenti fosse commerciale, gli Stati Uniti e i loro alleati sono sempre più preoccupati per le potenziali implicazioni militari, spiega una fonte militare europea – il Parlamento europeo ha recentemente redatto uno studio, “Chinese Investment in European Maritime Infrastructure”, focalizzandosi sul problema. Xi d’altronde ha spesso parlato della sua ambizione di trasformare la Cina in una “superpotenza marittima”. La rete portuale offre uno sguardo sulla portata di tali ambizioni, e come nel caso delle flottiglie ibride dei pescherecci (o del potenziale uso dei traghetti ro-ro per trasporti di truppe anfibie), anche certe infrastrutture potrebbero avere un ruolo duale. Pechino è lontana decenni dall’eguagliare la presenza militare statunitense nel mondo, ma la Cina ha la marina più grande e in più rapida crescita in questa fase (dunque potenzialmente più moderna in futuro), e sempre più si sta avventurando oltre le coste dell’Asia orientale.

La Bri marittima corre verso sud dalla costa cinese attraverso la principale via di transito dell’Oceano Indiano, lo Stretto di Malacca, e i più trafficati punti di strozzatura marittima (gergo tecnico: chokepoint) del Medio Oriente, finendo in Europa. Qui la Cina controlla una postazione militare a Gibuti e sembra che possa essere interessata alla creazione di una struttura sulle coste dell’Oman. L’obiettivo è creare un ponte tra Corno d’Africa e Golfo Persico – ossia lungo un asse che segna i passaggi di aliquote importanti del mercato dell’energia e delle merci globali. Anche in questo caso, l’America è dotata di infrastrutture militari notevolmente più diffuse e capaci, ma a creare preoccupazioni è l’interessamento cinese e la rapidità con cui certi progetti si stanno concretizzando.

Talassocrazia asimmetrica

Quando Xi annunciò il suo piano, la Cina aveva partecipazioni in 44 porti a livello globale, fornendo una base per la sua strategia. Un decennio dopo, la Cina possiede o gestisce porti e terminal in quasi 100 località in oltre 50 Paesi, in tutti gli oceani e in tutti i continenti. La maggior parte degli investimenti sono stati effettuati da società di proprietà del governo cinese, rendendo di fatto Pechino e il Partito Comunista Cinese il più grande operatore portuale, al centro delle catene di approvvigionamento globali. Anche a questo si lega il concetto diffuso tra Unione Europea e Stati Uniti di de-risking, che – come recentemente notava l’Asia Nikkei – potrebbe avere proprio nei porti uno dei suoi problemi.

L’espansione marittima è fondamentale per il potere economico – la rete marittima migliora l’accesso della Cina ai mercati mondiali, anche considerando che oltre la metà delle merci commercializzate dalla Cina passa per il mare – ma ha anche significative implicazioni militari per Pechino, nel segno di quella talassocrazia che è stata per decenni il marker dell’egemone americano. “Credo fermamente che ci sia un aspetto strategico nei particolari porti su cui stanno puntando gli investimenti”, ha detto Carol Evans, direttrice dello Strategic Studies Institute dell’US Army War College.

Essere presente all’interno di scali importanti – per esempio Port Khalifa, negli Emirati Arabi Uniti – permette a Pechino una finestra sulle relazioni commerciali dei Paesi concorrenti, spiega l’esperta americana, e potrebbe permettere la raccolta di informazioni da utilizzare per aiutare la Cina a difendere le proprie supply chain, spiare i movimenti dei rivali (anche militari, su tutti quelli statunitensi) e potenzialmente indirizzare ritorsioni contro le loro spedizioni. Pechino potrebbe esercitare forme di coercizione commerciale ulteriori, armi già usate contro l’Australia o la Lituania per esempio.

I porti o i terminal di proprietà cinese sono già porti di scalo per le navi da guerra cinesi, come la flottiglia che è entrata nel porto nigeriano di Lagos a luglio. Ancora: vent’anni fa, la Cina non aveva nessuna nave presente nell’Oceano Indiano, ora mantiene da sei a otto navi da guerra in dispiegamento permanente nella regione – dove tra poco avrà una base in Cambogia e un’altra postazione ibrida in Pakistan (e potenzialmente una che vi si affaccia dall’Oman). In definitiva, la Cina è ormai la principale potenza marittima commerciale del mondo – controllando anche i sistemi infrastrutturali presenti negli scali, come gru a terra e carri ponte, e producendo circa il 90% di container in circolazione.

La sua presa strategica sulle rotte di rifornimento mondiali potrebbe essere utilizzata per interdire o limitare il commercio dei Paesi rivali, i movimenti di truppe e la libertà di navigazione in una serie di modi diversi – dagli ostacoli fisici a quelli cyber. Che cosa succederebbe se tutta la rete cinese venisse bloccata come rappresaglia contemporaneamente? E in modo simile: se ne venisse bloccata solo una porzione si innescherebbero dinamiche geopolitiche in determinate regioni? Pechino ha creato una minaccia asimmetrica, nuova rispetto al classico concetto di sea power finora conosciuto.

La potenza marittima asimmetrica cinese passa dal controllo dei porti

La Cina è ormai la principale potenza marittima commerciale del mondo e la sua presa strategica sulle supply chain mondiali potrebbe essere utilizzata per interdire o limitare il commercio dei rivali. È una minaccia asimmetrica, nuova rispetto al classico concetto di sea power finora conosciuto

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