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In una democrazia, lo stato di salute dell’opposizione è persino più prezioso del tasso di stabilità di un governo. Se l’opposizione annaspa o non trova, come avrebbe detto il politologo Gaetano Mosca (1858-1941), la sua “formula politica” per andare avanti, a soffrire è l’intero sistema parlamentare, essendo le funzioni di controllo e di stimolo esercitate dalla minoranza la migliore garanzia contro la bulimia di potere, irresistibile tentatrice di molte coalizioni di governo. Non da ieri il Pd, principale forza di opposizione, sta attraversando un periodo di profonda incertezza, culminato con il contraddittorio voto in Europa sui soldi per le munizioni ucraine: no a parole da parte della segretaria Schlein, sì nei fatti, in aula, da parte degli europarlamentari dem.

E non è soltanto l’Ucraina a creare divisioni in seno a un partito che fu concepito a vocazione maggioritaria (Veltroni) per dare una casa a tutti i riformisti del Belpaese. Sulla linea economica, per dire, le distanze tra le varie anime del Pd sono oggi tutt’altro che modeste. Le idee di quelli che non hanno seguito l’ex premier in Italia Viva, sono assai diverse dalle idee di Elly Schlein. E così sui diritti civili, sulla maternità surrogata. Servirebbe, nel Pd, un resettaggio all’insegna della chiarezza, pena la disaffezione, più o meno lenta, o più o meno rapida, dipende, da parte di militanti ed elettori; e pena l’erosione del ruolo di vigilanza del Pd sull’operato della maggioranza di governo, come richiederebbe la fisiologia democratica. Il benessere di una democrazia, infatti, si basa su istituzioni efficienti e su maggioranze e minoranze in perfetta forma. In caso contrario, amen.

A sinistra si discute e a volte ci si divide su parecchi temi. Ma la questione centrale che assorbe quasi tutte le altre riguarda l’uguaglianza. Uguaglianza dei punti di arrivo o dei punti di partenza? Uguaglianza sociale o eguaglianza economica? Uguaglianza dei diritti o delle opportunità? Il concetto di uguaglianza trascina con sé anche il problema della distribuzione della ricchezza. Meglio affidare la distribuzione della ricchezza alle decisioni dello Stato, ossia della classe politica, o affidarla, invece, alle correzioni dei meccanismi di mercato? E ancora: siccome la ricchezza non scende dal cielo come la pioggia in inverno e siccome la ricchezza bisogna comunque produrla, chi deve provvedere alla bisogna? E come deve farlo? Esiste cioè, ancora indeterminata, la questione dell’accumulazione o, come dicevano i laburisti inglesi qualche lustro addietro, la questione della pre-redistribuzione della ricchezza.

Chi deve attivarsi in tal senso? Lo Stato, si sa, è assai meno abile dei privati nella produzione di beni e servizi, dal momento che non possiede le informazioni che intercorrono tra milioni, miliardi di individui, consumatori, commercianti e produttori. E comunque, prima di procedere alla distribuzione dei beni e servizi, è fondamentare assicurare la crescita del Pil, ossia dell’economia reale. Chi deve impegnarsi? E siamo punto e a capo.

Da tempo, le due sinistre che si contendono la leadership delle politiche egualitarie presentano risposte differenti, a volte opposte, alle domande di cui sopra. La sinistra radicale, massimalista, attribuisce un ruolo primario, quasi esclusivo, allo Stato, sia nell’accumulazione, sia nella redistribuzione della ricchezza. La sinistra riformista e liberale, invece, assegna allo Stato il compito di redistribuire la ricchezza attraverso l’imposizione fiscale progressiva, e attribuisce al mercato regolato l’incarico di realizzare i prodotti e i servizi che assicurano la crescita economica del Paese.

In Scandinavia sono riusciti a sfiorare la quadratura del cerchio: alta tassazione per i paperoni, stato sociale al massimo, ma senza toccare gli ingranaggi del mercato, il che può consentire alle imprese più profittevoli di espandersi assai senza dover prima sottoporsi alle autorizzazioni di decine e decine di autorità pubbliche. Non a caso il leader socialdemocratico svedese Olof Palme (1927-1986) paragonava il capitalismo a una pecora da tosare sì periodicamente, ma non fino al punto di stremarla e di vederla accasciata al suolo, priva di vita. In ogni caso, non è facile districarsi nella giungla delle disuguaglianze, in alcuni casi tali solo per le dichiarazioni fiscali, alla luce della proverbiale renitenza di numerosi italiani a pagare le tasse.

E poi quali tipi di disuguaglianze necessitano di immediati interventi correttivi tra le disuguaglianze di reddito, di sapere e di patrimonio? Il reddito spesso (anche se non sempre) corrisponde al merito individuale: più lavoro, più guadagno, più contribuisco alla crescita generale. Perché dovrei essere penalizzato se mi dimostro più attivo, laborioso e intraprendente di altri?

Passiamo alla disuguaglianza di sapere: non è colpa mia se parecchi, tra giovani e anziani, non si aggiornano a dovere, mentre le novità tecnologiche si rincorrono alla velocità dei bolidi sulle piste di Formula Uno. Coloro che sanno sono più utili di coloro che hanno. Non è certo saggio, oltre che giusto, punirli per i loro meriti: sarebbe autolesionistico per la società in genere, oltre che paradossale per il buon senso collettivo e individuale. E poi: dovrebbe provvedere la scuola ad attenuare i divari nel sapere. Ma se la scuola del Terzo Millennio punta a livellare verso il basso il bagaglio delle conoscenze, punta a scoraggiare il merito e l’impegno dei ragazzi, allora diventa quasi inevitabile che i ricchi continuino gli studi, si perfezionino e si specializzino altrove, nelle scuole dove uno non vale uno.

Rimane la terza tipologia di disuguaglianza, quella patrimoniale. Disuguaglianza quasi sempre frutto di lasciti ereditari, anche da parte di parenti lontani. Diciamolo: la vera disuguaglianza, quella più pesante, è quella patrimoniale, perché sovente non discende dai meriti e dall’impegno individuali, bensì dallo stato di famiglia (a volte allargata) di ciascuno. La disuguaglianza patrimoniale è sinonimo di rendita (ereditata) e questa rendita, storicamente, è coassiale all’idea di privilegio.

Il fattore patrimonio (in gran parte ereditato), in Italia, è così decisivo, anche come ammortizzatore sociale, da impedire sul nascere qualsiasi forma di ribellione di piazza: non si spiegherebbe altrimenti il fatto che, nonostante le diffuse sacche di povertà (ufficiali) registrate nel Paese, i consumi di massa siano quelli di una popolazione agiata, tutt’altro che indigente. Eppure, malgrado tutto, non è la rendita il bersaglio da colpire da parte delle politiche redistributive pubbliche, semmai il reddito e il sapere, che spesso sono l’unico tasto dell’ascensore sociale a disposizione dei più svantaggiati.

Lo stesso Thomas Piketty, economista simbolo della sinistra in lotta per l’uguaglianza, indica nel capitalismo patrimoniale, nell’accumulazione di rendite dovute a beni ereditati, una delle conseguenze più inaccettabili della combinazione della ricchezza fra gli esseri umani. Lo stesso Luigi Einaudi (1874-1961), liberale insospettabile di estremismi egualitari, auspicava un trattamento fiscale adeguato per i beni ereditati, specie se accumulati al di fuori della famiglia originaria. In Italia, invece, si preferisce colpire il reddito, con aliquote assai progressive e addizionali sempre più penalizzanti. I veri ricchi fanno festa, i finti ricchi piangono.

Conclusione. La sinistra di Schlein dovrebbe dire una parola comprensibile su come intende affrontare le tre disuguaglianze di cui sopra. Anche a sinistra si vota con il portafogli.

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Reddito, sapere e patrimonio: il Pd dovrebbe chiarire come intende affrontare i relativi divari nella speranza di salvaguardare i meriti individuali, anziché i meriti familiari, ossia le rendite, le prebende dei beni ereditati. Il commento di De Tomaso

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