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Hacker cinesi sono entrati nelle reti informatiche della Difesa giapponese e ci sono rimasti per mesi, alla ricerca di piani, valutazioni sulle capacità e sulle carenze militari. A scoprirlo è stata la National Security Agency degli Stati Uniti nell’autunno del 2020, proprio mentre Washington stava facendo i conti con il caso SolarWinds, uno dei maggiori cyber-attacchi degli ultimi anni, e si preparava a un cambio di amministrazione.

IL VIAGGIO URGENTE

Secondo Bonnie Glaser, a capo del programma Indo Pacifico del German Marshall Fund, la rivelazione del Washington Post è “molto importante” visto anche le mire di Pechino sul Pacifico Occidentale. “È stato terribile, scioccante”, ha raccontato una fonte del giornale. Per dare l’idea della portata dell’attacco basti pensare che il generale Paul Nakasone, capo della National Security e del Cyber Command statunitense, e Matthew Pottinger, all’epoca vice consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, si erano precipitati a Tokyo, si legge. “Hanno informato il ministro della Difesa, che era così preoccupato che ha fatto in modo che avvisassero il primo ministro in persona”, ha spiegato un’altra fonte.

LA SCOPERTA DELL’AMMINISTRAZIONE BIDEN

Pensavano di aver arginato la situazione. Ma mentre l’amministrazione Biden si stava ambientando all’inizio di gennaio del 2021, “i funzionari della sicurezza informatica e della difesa si sono resi conto che il problema si era aggravato”, racconta il Washington Post. Ma i passi avanti del Giappone – compreso l’hacking offensiva come difesa previsto dalla nuova strategia di sicurezza nazionale – “non sono ancora considerati sufficientemente sicuri per gli occhi indiscreti di Pechino”.

LA RISPOSTA GIAPPONESE

Yasukazu Hamada, ministro della Difesa giapponese, ha dichiarato che Tokyo sta rispondendo ai cyberattacchi “attraverso una serie di iniziative”, ma non ha offerto dettagli sugli incidenti. “Non abbiamo avuto conferma che siano trapelate informazioni riservate in possesso del ministero della Difesa”, ha aggiunto in conferenza stampa. “Non ci sono stati incidenti di cyberattacchi che abbiano influenzato la riuscita delle missioni” delle forze armate giapponesi.

LA QUESTIONE “HUNT FORWARD”

Un elemento che emerge con chiarezza dalla storia è la riluttanza del Giappone ad accettare l’aiuto degli Stati Uniti. In particolare delle squadra “Hunt Forward” del Cyber Command che gli Stati Uniti mandano in giro per il mondo per aiutare alleati e partner. “Non si sentivano a loro agio ad avere i militari di un altro Paese sulle loro reti”, ha detto un ex funzionario al Washington Post. E il Giappone non è l’unico Paese ad avere dubbi su queste attività. L’anno scorso, il generale Aymeric Bonnemaison, capo del Comando di difesa cibernetica francese, ha dichiarato a una commissione parlamentare di essere preoccupato che le missioni “Hunt Forward” sono “piuttosto aggressive” e possono aprire porte indesiderate (leggasi: spionaggio).

L’AFFIDABILITÀ DI TOKYO?

I cyberattacchi al Giappone sollevano la questione della condivisione di intelligence da parte degli Stati Uniti. Questi ultimi, però, hanno bisogno del Giappone come alleato nella regione, quindi alla condivisione di intelligence non c’è alternativa. La rivelazione del Washington Post ha spinto alcuni a dubitare anche di un eventuale allargamento dell’alleanza d’intelligence Five Eyes, che ora unisce Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda. Tobias Harris, vicedirettore del programma Asia del German Marshall Fund, ha spiegato che vale la pena ricordare la reputazione di Tokyo come “paradiso delle spie” la prossima volta che qualcuno si chiederà perché non includere il Giappone nei Five Eyes.

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