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Il campo largo non funziona. Le elezioni regionali nelle Marche hanno offerto spunti di riflessione che vanno oltre i confini territoriali, toccando le dinamiche nazionali e il quadro politico complessivo. A vincere è stato Francesco Acquaroli, riconfermato presidente e sostenuto dalla coalizione di centrodestra, mentre la sfida del centrosinistra guidata da Matteo Ricci si è rivelata meno competitiva del previsto. Formiche.net ha chiesto al politologo Alessandro Campi, un’analisi sul voto marchigiano, sugli errori della sinistra e sugli equilibri della coalizione di centrodestra.

Professore, partiamo dall’impatto di queste elezioni. Quanto contano davvero le regionali delle Marche nel quadro politico nazionale?

C’è sempre il rischio di caricare le elezioni intermedie di un’attesa eccessiva. La partita delle regionali viene spesso interpretata come un’anticipazione del voto politico nazionale, e questo finisce per gonfiare le aspettative. Poi, inevitabilmente, arriva la delusione: ci si rende conto che si tratta di un passaggio importante, ma non decisivo. In questo caso si può parlare di una vittoria annunciata, ma non di uno spartiacque.

Acquaroli è stato spesso descritto come poco carismatico. Quanto ha pesato questa percezione?

A sinistra si è commesso un errore di prospettiva. Si è ritenuto che il confronto mediatico favorisse Ricci, che effettivamente ha una presenza più spiccata e una capacità di comunicare attraverso la televisione. Ma per gli elettori questo non è stato determinante. Acquaroli ha dato l’impressione di essere serio, strutturato, concreto. In un’epoca in cui si pensa che anche i presidenti di Regione debbano essere figure mediatiche, il fatto che lui non lo fosse si è trasformato in un punto di forza.

Eppure Ricci partiva con una popolarità più alta. Perché non ha fatto la differenza?

Perché la popolarità mediatica non sempre si traduce in consenso reale. Ricci era visibile, sapeva muoversi bene nei messaggi televisivi. Ma la politica regionale si gioca anche sulla credibilità, sulla capacità di trasmettere affidabilità. E da questo punto di vista Acquaroli ha convinto di più.

Il “campo largo” non è bastato. Perché?

Perché la somma delle sigle non crea automaticamente un ampliamento della base elettorale. Se nel messaggio politico emergono posizioni radicali ed estremiste, l’effetto non è di inclusione ma di esclusione. La politicizzazione di temi come Gaza, ad esempio, non ha prodotto consenso. È stato un errore duplice: da un lato non ha spostato voti, dall’altro ha allontanato l’elettorato moderato. La sinistra si è intestata battaglie che non hanno una traduzione immediata in termini di voto.

Molti osservatori hanno parlato dell’“effetto Meloni”. Che cosa significa concretamente nelle Marche?

Non parliamo di promesse elettorali legate alla Zona economica speciale o a misure specifiche. L’effetto Meloni è sistemico: la percezione di un governo stabile in un contesto internazionale instabile. Questo è percepito come un valore aggiunto anche da elettori che non sono di destra. La stabilità a Roma diventa stabilità ad Ancona.

All’interno del centrodestra, quali dinamiche emergono?

Si sta cristallizzando un trend. Forza Italia sta vivendo una lenta risalita: la leadership di Tajani funziona, ed è gestita con intelligenza, valorizzando l’eredità di Berlusconi. È un elemento di stabilizzazione della coalizione. La Lega, invece, paga il fatto di essere troppe cose contemporaneamente: agli occhi degli elettori non ha più un’identità chiara ed è popolata da diverse anime spesso confliggenti tra loro.

Guardando al futuro, quali lezioni dovrebbe trarre la sinistra da questo voto?

La prima è che non basta avere un candidato mediaticamente efficace. La seconda è che la radicalizzazione dei temi non porta a un ampliamento del consenso. E infine, che una parte consistente dell’astensione non proviene dal solo elettorato di destra: lì c’è un bacino potenziale che il centrosinistra non è riuscito a intercettare.

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