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Ascolto dibattiti accessi in Italia dove ognuno ha la ricetta per risolvere la mannaia dei dazi di Trump. Prevale il caldo consiglio di una risposta europea. Immediata. Molte associazioni di categoria pretendono che ora “l’Europa faccia l’Europa”. Sono affermazioni che, spesso, si fermano sulla soglia delle buone intenzioni. Basate sul presupposto che esiste un’Europa che si è fatto Stato. Niente di più fumé. Il paradigma, recente, al quale volgere lo sguardo è il comportamento tenuto durante l’Europa delle sanzioni e l’Europa della guerra in Ucraina. È la rappresentazione plastica di un Vecchio continente che si muove con fatica. Privo di ruolo unitario. Immerso in una movimentazione occasionale, Si veda la combriccola dei volenterosi o la narrazione sulla difesa europea poggiata sul riarmo solo di Germania e Francia. La lista dei precedenti che segnalano un’Europa destrutturata è determinata dall’assenza di una politica fiscale comune, da una concorrenza falsata da zone avvantaggiate per alcuni Paesi e per altri meno, salari differenziati per l’assenza di una strategia industriale unitaria, oltre il vuoto permanente di una politica estera.

Prima del gravame dei dazi americani l’Europa doveva lavorare su barriere, quote e ostacoli dentro l’Unione, incastonati, infiltrati, incrostati da decenni e mai risolti. Per questo il trambusto delle disposizioni di Trump ha creato un robusto sconquasso. Disorientamento. E sarà complesso immaginare una delega totale di risoluzione del problema affidata unicamente alla commissione europea anche se formalmente solo l’Unione è delegata a trattare sui dazi, perché il capo della Casa Bianca ha come obiettivo i singoli Stati, si aspetta quindi reazioni diverse in rapporto agli interessi da tutelare.

Quindi ora si dovrà trovare un accordo tra tutti gli Stati sulle mosse da intraprendere (si osservi a proposito l’impasse diplomatica negoziale per trovare un accordo di pace del conflitto russo-ucraino che ha comportato l’autoesclusione dell’Europa dal tavolo delle trattative Usa-Russia). Francia e Germania pretendono contro mosse shock and awe contro Trump. Altresì sarà necessario che i diversi leader rappresentanti dei Paesi europei si diano da fare autonomamente per relazionarsi con Trump e fare le pressioni che servono per trovare poi una quadra comune. Parallelamente sarà indispensabile che ogni stato europeo inizi a prevedere una prima assistenza economica ai produttori colpiti dai dazi (ad esempio credito d’imposta all’export). La Spagna lo sta facendo.

Trump, che non è un matto, ragiona di logica e lavora su un terreno fertile, storicizzando l’andamento dei precedenti dell’Unione, ha fatto una mossa, solo in apparenza, da muoia Sansone con tutti i filistei. Accentuando il suo agire sui limiti degli altri. Costatando che pure il Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, conta come il due di picche, poiché è bloccata nel suo agire (e quindi nel suo processo di riforma) dai veti della Casa Bianca gestione Biden.

Trump da immobiliarista rodato alla ‘The Apprentice’, sei dentro-sei fuori, va a tariffario, a provvigione, vede gli Stati Uniti al centro e le nazioni colpite che fanno la fila per chiedere a lui udienza e risolvere i problemi attraverso una contrattazione monetaria. Di dare e avere. D’altronde i dazi cosa sono se non una gabella a vantaggio esclusivo delle entrate degli Stati? Nel caso odierno l’ideale sarebbe proprio quello di togliere ogni barriera e creare un grande libero mercato Stati Uniti-Europa. Idea che da più parti sta riecheggiando ma che necessita, per parte statunitense, un passo interlocutorio che livella al ribasso alcune decisioni europee sui dazi a discapito dell’industria automobilistica americana. Che si sommano alla cosiddetta manipolazione del cambio da parte della Banca Centrale Europea, un mega dazio dell’Europa verso gli Stati Uniti che è il primo motivo di preoccupazione della mossa di Trump. Come scrive Giuseppe Timpone su InvestireOggi i tassi negativi si sono tradotti in una fuga di capitali dall’Ue verso gli Stati Uniti. Quel deflusso di denaro ha favorito la borsa americana, il dollaro troppo forte, l’economia americana va relativamente bene a colpi di spesa pubblica in deficit, bolla azionaria e immigrazione di massa. Una situazione insostenibile per Trump (tenuto per il collo dalla Cina che detiene 768 miliardi di titoli del tesoro americano e dai 27 Paesi dell’Unione europea che di titoli ne tengono oltre duemila miliardi).

Le conseguenze? Gira insistente la versione che Trump non durerà. E ci fermiamo qui sui risvolti possibili. Quello del Presidente americano è un progetto che richiede lunga lena. Dai risultati molto incerti. E già fra due anni ci saranno le elezioni di mezzo termine che potrebbero mandare all’aria tutto quanto. Eppoi ci sono gli altri dossier aperti. A partire dalle trattative di pace in Ucraina, la sfida sullo scacchiere medio orientale, la presa della Groenlandia, in canale di Panama. Bombe e bombette che ha lanciato nell’immaginario collettivo americano nel nome dell’America First che richiedono, però, effetti immediati nelle tasche dei cittadini.

Dal lato globalizzazione quello che è avvenuto è un colpo pesante che si somma al conflitto ucraino e sue conseguenze. Un rimescolamento di posizioni e di alleanze tra paesi. Soprattutto viene meno l’aspetto fiduciario il sentiment delle relazioni commerciali diffuse. Si dice che saranno esplorati nuovi Paesi, nuove aree di libero scambio come il Mercosur. Ma entrare in nazioni nuove vuol dire costruire relazioni che richiedono anni e costi ingenti che solo le grandi imprese riescono sostenere e programmare nell’immediato. Gli altri si devono ritirare dalla corsa. Non c’è un nuovo ordine internazionale senza dialogo. Che trova lo spirito nella cooperazione economica. L’integrazione economica globale è il miglior antidoto contro qualsiasi guerra, è l’unica soluzione per dare vitalità a sistemi economici deboli e frammentati. Risollevare economie statiche, ristrutturare l’industria e aprirsi agli investitori stranieri. Altroché dazi e barriere. Servono relazione, complicità, fiducia. Incontrare fornitori e acquirenti. Guardarsi negli occhi. Discutere. Redigere accordi. Condurre imprese. Creare legami cacciando la diffidenza (abbiamo toccato con mano i patimenti post pandemia).

Voltarsi indietro per andare avanti, quando il pane era polenta dicevano i nonni della Bassa Padana. Nel glocal il mercato del contadino è un format valido per il global scalfito dall’autogenerata diffidenza, i dazi. La descrizione che ne fa lo scrittore Ermanno Rea è quella che rende più l’idea di un modello da recuperare. Una piazza gremita – Rea osserva quello che era il mercato del giovedì a Mantova – di ruvide facce di allevatori, macellatori, mediatori che si scambiano bigliettini, si danno pacche sulle spalle, che si chiamano da un capannello all’altro, che annuiscono, dissentono, sorridono, sbuffano, per suggellare, alla fine, con una semplice stretta di mano, una transazione. Il professor Victor Uckmar spesso mi ricordava che l’education deve arrivare sempre prima del business.

Dazi, comunque vada l’Europa e l’Italia devono parlare con Trump. L’opinione di Guandalini

L’Unione Europea deve rispondere alle barriere doganali innalzate dalla Casa Bianca. Ma prima è bene che guardi ai tanti ostacoli che dentro il Vecchio continente impediscono la nascita di un vero e solo Stato. Con l’America deve prevalere il dialogo e la contrattazione. La posta in gioco è la globalizzazione, la necessità di intensificare le relazioni commerciali tra Paesi in una ipotesi futura di un mercato a dazi zero. L’opinione di Maurizio Guandalini

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