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L’informazione nei media italiani resta intrisa di antisemitismo, declinato nelle diverse formule. Per non parlare delle imprecisioni e delle (colpevoli) omissioni di chi approccia in modo ideologico e a senso unico il conflitto israelo-palestinese. Il tutto condito da una serie di imprecisioni, anche terminologiche oltre che concettuali, da far rabbrividire. Tutto questo porta a dire che ci sia ancora “tantissimo lavoro da fare” per riuscire a ottenere un’informazione che affronti le questioni legate in particolare a Israele, ma più in generale all’antisemitismo e all’antigiudaismo.

Questo è il quadro – ben poco lusinghiero – tratteggiato da Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in una conversazione con Formiche.net a seguito dell’evento “85 anni dalle leggi razziali: lotta all’antisemitismo nei media italiani. Seminario per giornalisti”, organizzato dall’Ambasciata d’Israele in Italia nei giorni scorsi.

Presidente Di Segni, che cosa rende l’informazione italiana così lacunosa e talvolta dannosa nell’affrontare i problemi legati all’antisemitismo e a Israele?

Ci sono due piani. Il primo è quello legato alla chiarezza terminologica, che spesso manca nell’affrontare certe questioni. Prima di tutto occorrerebbe far luce su cosa in effetti significhi antisemitismo e anti-giudaismo. Dunque innanzitutto penso che il primo problema sia la scarsa capacità di classificare e riconoscere questi fenomeni. Il secondo piano di discussione è quello legato a Israele.

Ecco, ciò che accade in Israele è spesso viziato da un orientamento ideologico ostile allo Stato Ebraico, in particolare nella narrazione del conflitto israelo-palestinese. 

Sì e su questo mi preme sottolineare un concetto: chi mette in discussione la legittimità dell’esistenza dello Stato d’Israele è un antisemita. Non esiste una distinzione tra chi è anti-israeliano e antisemita. Israele rappresenta la nostra terra, la nostra storia, la nostra tradizione. Israele è l’ebraismo e viceversa.

Come valuta l’atteggiamento dei giornalisti italiani su queste tematiche?

Molti giornalisti scelgono di raccontare in maniera distorta ciò che accade in Israele, deformando la realtà. Oppure, c’è chi decide di omettere certi particolari o certe circostanze che invece sarebbero fondamentali per inquadrare i fenomeni nella loro complessità. C’è, insomma, un approccio selettivo al tema israeliano, figlio di una relativizzazione assoluta e abbastanza trasversale. Chi è ostile a Israele lo può sbandierare ai quattro venti, mentre chi ne prende le parti deve sempre avere qualche forma di scrupolo. Per non parlare dell’informazione disintermediata: Internet e i social in questo senso sono diventati i megafoni delle peggio nefandezze, in particolare contro Israele.

Riscontra una matrice politica nell’approccio relativistico nei confronti di Israele?

Ritengo sia un modus operandi fuorviante e profondamente sbagliato, abbastanza diffuso purtroppo. Nella parte giornalistica italiana strutturata, riscontro un totale appiattimento in favore della causa palestinese, senza che però tutto ciò che accade – molto complesso – venga sviscerato in maniera oggettiva. Tanto per intenderci: non basta copiare ciò che scrive Haaretz per comprendere la complessità di ciò che accade in Eretz Israel.

Come è percepita l’informazione italiana in Israele?

Molto negativamente. C’è la giusta convinzione che, per lo più, le informazioni non tratteggino la realtà per come è ma che sia un’informazione sostanzialmente distorta. Ed è per questo che, come Ucei, abbiamo organizzato un corso di formazione per giornalisti proprio per tentare di invertire questa rotta.

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