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Come noto, nell’ultimo periodo i Paesi dell’area Euro – ma non solo – hanno dovuto confrontarsi nuovamente con le problematiche poste dall’inflazione, una questione che, almeno in Italia, non si poneva in simili termini di attualità e di urgenza almeno dagli anni 80 del secolo scorso.

È dunque comprensibile la tendenza (e forse la tentazione) di inquadrare i problemi contemporanei secondo schemi concettuali adottati vari decenni fa.

In tal senso, non appena si è chiusa la fase più strettamente emergenziale della crisi pandemica, è insorto il conflitto in Ucraina, evento di per sé tragico che, per di più, ha riportato un grande conflitto nel cuore dell’Europa per la prima volta dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

La crisi geopolitica ha innescato la ben nota crisi energetica la quale, con una certa rapidità, si è tradotta in un generale aumento di prezzi di prodotti e servizi, soprattutto quelli più direttamente commercializzati e forniti da imprese c.d. energivore.

È stato allora pressoché inevitabile assimilare gli effetti della crisi ucraina a quelli dello shock petrolifero del 1973. Uno degli esiti di questa impostazione è stato quello, in estrema sintesi, di paventare (se non preconizzare) un perdurante incremento di fenomeni inflattivi che, in tal senso, non potrebbero regredire fintanto che permangano le ostilità fra Russia e Ucraina.

Posta questa premessa, i governi, le banche centrali e la Bce, ciascuno relativamente alle proprie aree di competenza, si sono attivati per contrastare l’inflazione, fenomeno che, di per sé, rappresenta fonte di grande instabilità non solo economica, ma anche e soprattutto sociale (riecheggia pur sempre il monito di Einaudi che pensava l’inflazione come la più ingiusta delle tasse atteso che essa colpisce in maniera più significativa il potere di acquisto delle classi più deboli e più bisognose).

In questo contesto, la risposta più immediata è giunta a livello monetario: per contenere l’aumento dei prezzi, la Bce ha esercitato le proprie potestà in termini di aumento dei tassi di interesse, avviando, nelle scadenze programmate, un trend di aumento costante culminato, lo scorso 15 settembre, nella fissazione di un tasso pari al 4,5%.

Tale opzione, tuttavia, ha suscitato più di una perplessità, arrivando addirittura a segnare una presa di distanza più o meno marcata fra governi centrali e Bce.

Difatti, contrariamente ai timori e alle previsioni più pessimistiche, l’inflazione ha rallentato la propria corsa e, anzi, secondo talune analisi e rilevazioni, avrebbe iniziato un processo di discesa; nella peggiore delle ipotesi, la situazione si è stabilizzata e non è sfociata in scenari catastrofistici di iperinflazione che pure si sono affacciati in talune analisi.

Ne discende che, se è legittimo accostare lo shock petrolifero del 1973 alla crisi ucraina, è anche vero che il sistema microeconomico e quello macroeconomico sembrano essersi assestati e, per varie ragioni, aver trovato soluzioni efficienti volte, almeno per il momento, a superare la crisi energetica; con ciò sarebbe dunque legittimo ritenere che l’andamento generale dei prezzi sia oramai almeno in parte disancorato dal perdurare del conflitto e dal suo andamento.

Muovendo da simili premesse, da più parti si è invocato una riduzione dei tassi di interesse e un ritorno a politiche monetarie fortemente espansive, coerenti con quelle praticate negli ultimi decenni (segnate da momenti di costo del denaro non solo nullo, ma addirittura negativo).

Tali auspici, come detto, sono stati però almeno per ora delusi; lo stesso timore del riemergere di fenomeni inflattivi ha rappresentato un deterrente insuperabile. La complessità dei fenomeni macroeconomici è tale dal dissuadere da analisi semplicistiche.

È però possibile svolgere talune considerazioni di natura, per così dire, impressionistica.

La prima è che appare poco perspicuo applicare gli schemi del passato alla realtà contemporanea.

La seconda è che l’accentramento della leva monetaria a livello europeo in capo a un organismo tecnico e formalmente disancorato dai governi centrali si conferma – ove mai fosse necessario ribadirlo – strumento che viene azionato secondo logiche sue proprie, cioè strettamente attinenti al proprio ambito di operatività, ma che finisce per dispiegare effetti rilevantissimi sulle politiche economiche e sociali perseguite dai governi.

Tale dialettica, evidentemente fisiologica entro certi limiti, può condurre a divergenze se non a veri propri conflitti.

Il perdurare di una politica monetaria restrittiva, infatti, obbedisce da un lato a logiche immediatamente deflattive. Ciò, ovviamente, beneficia, come detto, i ceti più deboli ma anche in primo luogo le banche che, in quanto soggetti creditori, sono di regola svantaggiati dall’inflazione.

Si ingenera così il sospetto che le politiche monetarie restrittive volute dalla Bce siano dovute non tanto a tutelare l’andamento generale dell’economia e la sua stabilità, quanto, eminentemente, a beneficiare le banche che, dall’inflazione, sono più direttamente colpite.

Ed è intuitivo che un aumento dei tassi di interesse produce effetti deprimenti su un’economia, come quella europea, che soffre di stagnazione e di problemi di crescita e sviluppo oramai cronici.

In questo contesto risulta pressoché impossibile fornire risposte rigide e astratte, dovendosi piuttosto privilegiare un approccio non ideologico e flessibile, cioè coerente con la situazione concreta.

Nel caso di specie, dunque, appare forse (almeno parzialmente) ingiustificato non prendere atto del decremento dei prezzi e non tornare a politiche monetarie più espansive, in linea con quelle perseguite negli ultimi anni. La debole e stagnante economia europea, infatti, sembra non poter prescindere dal ricorso al credito, soprattutto in favore delle imprese piccole e medie, di quelle di nuova costituzione, delle famiglie.

Semmai il problema che si pone è quello di valutare opportunamente il rischio e vigilare affinché la concessione del credito non sia né indiscriminata, né immeritata.

In tal modo l’andamento dei tassi tornerebbe a incorporare e, anzi ad esprimere, non tanto e non solo un parametro frutto di una scelta percepita come autoritaria e tecnocratica, quanto, piuttosto, la remunerazione del rischio concreto che il concedente del credito si assume.

 

L'inflazione, i tassi e le scelte della Bce. L'analisi dell'avv. Stanislao Chimenti

Appare oggi forse (almeno parzialmente) ingiustificato non prendere atto del decremento dei prezzi e non tornare a politiche monetarie più espansive, in linea con quelle perseguite negli ultimi anni. La debole e stagnante economia europea sembra non poter prescindere dal ricorso al credito, soprattutto in favore delle imprese piccole e medie, di quelle di nuova costituzione, delle famiglie. Il commento dell’avvocato Stanislao Chimenti, partner dello studio internazionale Delfino Willkie Farr&Gallagher

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