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Negli ultimi tempi c’è un neologismo che sta riscuotendo un certo successo. Il termine in questione, “Lawfare” – gioco di parole tra law, diritto, e warfare, conflitto – indica la tendenza della Repubblica Popolare Cinese guidata da Xi Jinping ad adattare il sistema giuridico al fine di trarre un vantaggio nell’aspro confronto economico con il mondo occidentale. Una weaponization del corpo legislativo, o meglio il “fare buon uso del diritto come arma e arricchire e migliorare costantemente lo strumento giuridico per la lotta sul piano internazionale” per usare la descrizione esatta del fenomeno fornito dallo stesso Ministro degli Esteri cinese Wang Yi. Un fenomeno che è espressione diretta del “Pensiero di Xi Jiping”, l’approccio dottrinario promosso dal Segretario del Partito Comunista Cinese in cui si mescolano elementi del marxismo con una visione di “ringiovanimento della Nazione”, e che mira a creare un sistema capitalistico “con caratteristiche cinesi”. Nel corpus giuridico della Repubblica Popolare, ad oggi sono due le leggi che incarnano il concetto di lawfare: la “Counter-Espionage Law” e la “Law on Foreign Relations”.

La “Counter-Espionage Law” era stata inizialmente promulgata per facilitare, come suggerisce il nome, la lotta agli agenti dei servizi di intelligence stranieri. Dopo il suo recente emendamento (avvenuto nel 2023) questa norma ha assunto un più ampio raggio d’azione, che include ora anche pratiche commerciali “ordinarie” come la raccolta di informazioni sui mercati locali, sui potenziali partner e sui concorrenti. E mentre la vecchia versione cercava di proteggere “i segreti di Stato e l’intelligence”, la versione aggiornata aggiunge una nuova categoria omnicomprensiva: “altri documenti, dati, materiali o oggetti relativi alla sicurezza o agli interessi nazionali”. Una simile formulazione permette di includere virtualmente qualsiasi fonte di informazione che le autorità di Pechino ritengano opportuno conoscere, o al contrario di cui voglia prevenire la diffusione.

Il Financial Times riporta come “Numerosi analisti e ricercatori locali di brokeraggio presso importanti università e think-tank statali hanno dichiarato di aver ricevuto istruzioni dalle autorità di regolamentazione, dai loro datori di lavoro e persino dai media nazionali di evitare di parlare negativamente di argomenti che vanno dai timori di fuga di capitali al calo dei prezzi” e che “Sette economisti molto stimati hanno dichiarato che i loro datori di lavoro avevano detto loro che alcuni argomenti erano off-limits per la discussione pubblica”.

La “Law on Foreign Relations” ha un margine d’azione altrettanto ampio, essendo esplicitamente rivolta sia agli stranieri che ai cittadini cinesi. “Gli stranieri e le organizzazioni straniere presenti nella Cina continentale (Hong Kong è per il momento esclusa da questo provvedimento ndr) devono rispettare la legge cinese e non devono mettere in pericolo la sicurezza nazionale cinese, danneggiare l’interesse pubblico della società o minare l’ordine pubblico della società” riporta il testo del provvedimento.

Gli effetti pratici di questo “sistema d’arma” giuridico sono già ben visibili. Gruppi stranieri come Mintz, Bain e Capvision sono stati attenzionati dalle autorità di Pechino, a causa delle informazioni sensibili in loro possesso. E sempre il Financial Times parla di come anche Deloitte, una delle cosiddette Big Four mondiali del campo della consulenza, sia stata consigliata di “imparare la lezione”, dopo aver ricevuto una multa di 31 milioni di dollari per aver svolto un audit ad una società statale di gestione di crediti deteriorati durante la quale avrebbe commesso “serie mancanze”. Inoltre, pare che alcuni dirigenti bancari e direttori d’azienda siano stati sospinti a studiare il “Pensiero di Xi”, partecipando ad attività e corsi a frequenza obbligatoria o leggendo al mese quattro libri scritti dal segretario. Anche il sistema di Initial Public Offering (Ipo) viene rivisto alla luce di queste nuove leggi, all’insegna di una “valutazione con caratteristiche cinesi”.

Le reazioni dall’altra parte del Pacifico non sono mancate. La Sec ha annunciato pubblicamente che questi cambiamenti mettono a rischio l’accordo stretto nel 2022, accordo che ha prevenuto il delisting delle aziende cinesi dal mercato americano. Al fine di evitare il verificarsi di questa situazione, la Sec ha invitato le imprese d’oltreoceano a “fornire informazioni più evidenti, specifiche e personalizzate su questioni specifiche della Cina, in modo che gli investitori dispongano delle informazioni materiali necessarie per prendere decisioni di investimento e di voto informate”.

Ma anche in questo caso non si riuscirebbe a colmare l’asimmetria informativa, lasciando a Pechino un vantaggio considerevole nella disfida economica; e non è detto che alcune delle imprese interessate preferiscano rinunciare al mercato americano piuttosto che mettersi contro il governo cinese. E non è da escludere che le autorità cinesi potrebbero decidere di avviare una vera e propria azione di retaliation nei confronti delle società occidentali operanti in Cina, forti del nuovo armamentario legislativo di cui si sono dotate. Armamentario che senza ombra di dubbio renderà ancora più difficile riuscire a gestire la sfida di Pechino negli anni a venire.

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