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Dopo una serie di telefonate dagli esiti tutt’altro che rilevanti, un incontro faccia a faccia tra il presidente statunitense Donald Trump e quello russo Vladimir Putin per trovare una soluzione diplomatica al conflitto in corso in Ucraina è stato pianificato per il prossimo venerdì 15 agosto in una location altamente simbolica, quell’Alaska che fu russo e poi americano, dopo che lo zar Alessandro II lo vendette agli Stati Uniti nel 1867. Una vicenda che ricorda due cose: la prima è che Washington e Mosca sono in grado di dialogare in modo produttivo e di trovare un terreno comune; la seconda è che la sovranità di uno Stato su un determinato territorio non è obbligatoriamente perpetuo e immutabile.

Proprio quest’ultimo punto è stato oggetto di discussione nelle ultime ore. Parlando del bilaterale che si terrà tra pochi giorni, il presidente Usa ha infatti affermato che un eventuale accordo tra la Russia e l’Ucraina potrebbe prevedere uno “scambio di territori”, senza addentrarsi in ulteriori dettagli. A stretto giro è arrivata la risposta del leader ucraino Volodymyr Zelensky, il quale ha negato la possibilità che quanto paventato da Trump si verifichi, rifacendosi all’indivisibilità dell’Ucraina affermata nella sua stessa Costituzione. Coerentemente con quanto fatto nei mesi precedenti, quando aveva in più occasioni ribadito che tra le possibili aperture nei confronti di Mosca (dallo scambio di prigionieri alla tregua sui mari alla mutua cessazione degli attacchi alle infrastrutture energetiche) non era assolutamente inclusa quella della rinuncia a porzioni di territorio.

Tuttavia, in questa particolare congiuntura la presa di posizione di Zelensky potrebbe metterlo in contrasto con il leader statunitense, che potrebbe tornare ad individuare il presidente ucraino, e non più quello russo, come il principale ostacolo al raggiungimento della pace. Un’inversione di rotta che potrebbe avere delle conseguenze concrete sulla politica statunitense nei confronti di Kyiv, la quale potrebbe riassestarsi sui binari seguiti durante i primi mesi di quest’anno. In quel frangente, la leadership americana aveva preso diversi provvedimenti, dalla sospensione dell’intelligence allo stop degli aiuti militari, per “punire” l’Ucraina della sua ritrosia a trovare un compromesso.

Un compromesso che, d’altronde, non è stato trovato neanche per arrivare al vertice bilaterale, considerando come Mosca non abbia fatto ancora alcuna concessione sui suoi “obiettivi dii guerra”, che rimangono gli stessi esposti in precedenza all’incontro diplomatico tra la delegazione statunitense e quella russa in Arabia Saudita. E questo, come sottolinea l’ex ministro degli esteri moscovita Andrey Kozyrev, “rappresenta un guadagno politico” per Putin, il quale potrebbe essere incoraggiato a portare avanti la stessa immutabile linea dura perseguita sin dall’inizio della guerra, vedendo che porta risultati. Esattamente come il fatto che, nonostante le pressioni esercitate dai partner europei e dalla stessa Ucraina, Zelensky non prenderà parte all’incontro bilaterale, per la soddisfazione del Cremlino. In questo contesto, un ritorno di Washington ad una postura ostile nei confronti di Kyiv andrebbe a rafforzare ulteriormente la percezione del Cremlino di poter ridurre al minimo le concessioni pur ottenendo i massimi benefici.

Questo renderebbe (di nuovo) la situazione difficile per Kyiv, ma non sarebbe una condanna irrevocabile. Già in passato infatti la leadership ucraina si è dimostrata capace di gestire con successo simili sviluppi negativi. E presto potrebbe doversi di nuovo cimentare nella stessa sfida.

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