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Per un momento pare che Jerome Powell fosse indeciso se schiacciare per la nona volta consecutiva il bottone dei tassi. A tre settimane dal fallimento della Silicon Valley Bank, saltata per aria proprio per colpa del costante e irrefrenabile aumento del costo del denaro deciso dalla Federal Reserve nella primavera del 2022, non attutito a dovere dallo stesso istituto californiano, era lecito attendersi un qualche effetto emotivo ai vertici della banca centrale americana.

E così è stato, anche se alla fine il tasto è stato premuto. Ma con meno convinzione rispetto a prima, proprio sull’onda dei timori delle banche americane, preludio di una auspicata frenata nella politica monetaria statunitense e, quindi, nel lungo termine, globale. Nella tarda serata italiana, la Federal Reserve ha deciso un nuovo aumento dei tassi d’interesse di un quarto di punto percentuale. Il tasso di riferimento federale sale così ad un range compreso tra il 4,75 e il 5%. È il livello più alto mai raggiunto dal 2006.

Attenzione però, perché stavolta i dettagli contano, eccome. Nella nota di accompagnamento della decisione, la Banca centrale americana sembra indicare al contempo che la stagione dei rialzi potrebbe presto giungere al termine. “Il Comitato (il Fomc, braccio operativo della Fed, ndr) monitorerà attentamente le informazioni in arrivo e ne valuterà le implicazioni per la politica monetaria”, si legge nello statement relativo alla decisione di alzare i tassi dello 0,25%, dove la Fed anticipa anche che “un certo accomodamento potrebbe essere appropriato allo scopo di raggiungere una posizione di politica monetaria sufficientemente restrittiva da far tornare progressivamente l’inflazione al 2%”.

Insomma, le crisi bancarie, partendo da Svb fino ad arrivare a First Republic, hanno cominciato a pesare nella decisioni della Fed. Instillando il dubbio che sì, la lotta all’inflazione rimane sacrosanta, ma se il prezzo da pagare sono i fallimenti degli istituti minori, allora una riflessione è d’obbligo. Di qui, il tono ben diverso, come notano subito i media americani, rispetto a quello tenuto sino ai mesi scorsi dalla Fed. Sono stati, come detto, ben nove i rialzi effettuati da marzo 2022. Ancora all’inizio di quest’anno si faceva riferimento nel linguaggio delle comunicazioni di politica monetaria ad “aumenti costanti” per tenere a bada l’inflazione montante. Ma le crisi del credito delle ultime settimane hanno fatto suonare un chiarissimo campanello d’allarme (la stessa Wall Street, che nel finale ha chiuso a -1,6%, non ha accolto troppo male la decisione della Fed).

E in Europa? La Banca centrale per il momento non ne vuol sapere di rallentare la corsa, come dimostra l’ultimo board della scorsa settimana, in cui Christine Lagarde ha portato il costo del denaro al 3,5%, grazie a un nuovo aumento di 50 punti base. Che l’inflazione in Europa (e non solo nella zona euro), sia un problema è evidente, anche se è bene ricordare come l’impennata dei prezzi sia imputabile nel Vecchio continente alla guerra e non al surriscaldamento della domanda.

Lo dimostra la nuova doccia fredda per Londra sul fronte inflazione. A febbraio l’indice dei prezzi del Regno Unito è balzato oltre le attese, salendo del 10,4% su base annua rispetto al 10,01% di gennaio e al 9,9% del consensus. Sale dunque la pressione sulla Bank of England, che proprio giovedì 23 è chiamata decidere sui tassi ma si ritrova a fare i conti con un dato ancora ai massimi degli ultimi 40 anni e di nuovo in crescita dopo tre mesi consecutivi di contrazione. E lo stesso accade in Svizzera, dove i postumi del salvataggio del Credit Suisse non sono ancora stati smaltiti. Malgrado le turbolenze sui mercati finanziari mondiali la Banca nazionale svizzera (Bns) prosegue nella lotta contro il rincari, inasprendo ulteriormente la sua politica monetaria: l’istituto innalza di 0,50 punti il suo tasso guida, portandolo dal +1,00% al +1,50%.

Effetto Svb sulla Fed. Ora Powell tira il fiato

​Nella notte la Banca centrale americana porta il costo del denaro al 5%, con un rialzo di 25 punti base. Potevano essere il doppio, ma il crack dell’istituto californiano ha pesato come un macigno. In Europa, invece, non c’è ancora aria di pausa di riflessione​

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