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Com’è possibile che Mario Mori, generale dei carabinieri con ottima reputazione per i risultati raggiunti nel contrasto al terrorismo con Carlo Alberto dalla Chiesa e nelle indagini contro Cosa Nostra con Giovanni Falcone, sia stato sotto processo per dieci anni?

La sentenza definitiva di assoluzione della Corte di Cassazione è di pochi giorni fa per le accuse relative alla presunta Trattativa Stato-mafia. La sesta sezione penale della Cassazione ha escluso ogni responsabilità a carico di Mori e di altri due ex ufficiali del Ros (il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno) “per non aver commesso il fatto”.

Il dato negativo più eclatante dei procedimenti giudiziari a carico di Mori e dei suoi collaboratori è l’interminabile durata degli iter processuali. Per stimati ufficiali dell’Arma – come ovviamente per qualsiasi altro cittadino italiano – essere sottoposti a indagini, subire processi ed essere assolti dopo oltre 10 anni è una realtà inconcepibile in uno stato di diritto. Nel caso specifico si aggiunge inoltre un danno per lo Stato perché l’azione di contrasto a Cosa Nostra delle forze di polizia e della magistratura è stata privata del contributo di investigatori di grande esperienza e valore.

Oltre all’inaccettabile durata dei procedimenti giudiziari la recente assoluzione della Cassazione per “non aver commesso il fatto” solleva, come spesso avviene in questi casi, inevitabili dubbi sulla consistenza dell’impianto accusatorio iniziale avallato dal giudice delle indagini preliminari. Questo ultimo aspetto è rilevante perché chiama in causa alcuni degli aspetti più fragili della riforma del codice di procedura penale del 1989 cui ha fatto cenno lo stesso generale Mori nelle sue interviste al Foglio e a Quarta Repubblica.

Nel funzionamento della giustizia italiana vige un sistema misto in cui nella pratica quotidiana non si concretizza la parità di poteri tra le parti (pubblica accusa e difesa) che dovrebbe, invece, caratterizzare il modello accusatorio.

L’asimmetria pratica tra gli strumenti di cui dispone l’accusa rispetto a quelli della difesa – in particolare nella fase delicata delle indagini preliminari – pone con urgenza due esigenze più volte sollevate da Giandomenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle camere penali: mettere finalmente il giudice al centro del funzionamento della giustizia; evitare la gogna giornalistica e porre i contenuti delle sentenze definitive al centro del sistema mediatico.

Purtroppo, da molti anni l’avvio di una indagine di un pubblico ministero fa molta più notizia di una sentenza. Non interessa far conoscere se una persona è colpevole o innocente e neppure se l’eventuale condanna ad una determinata pena è proporzionata al reato commesso. L’unica cosa che sembra contare – per buona parte dei media – è comunicare sospetti sulla base delle fughe di notizie dai palazzi di giustizia.

Non è buon segno perché significa la fine del giornalismo investigativo e ancor più perché la cultura del sospetto è un fenomeno tipico nei sistemi politici totalitari. In questo modo l’idea di giustizia si allontana da una concezione politica autenticamente liberale in cui la persona sottoposta a indagini e/o imputata è innocente sino all’ultimo grado di giudizio.

Le motivazioni della Cassazione illustreranno le ragioni specifiche su cui si fonda l’assoluzione definitiva di Mori e degli altri ex ufficiali del Ros. Ma questa vicenda giudiziaria solleva alcuni interrogativi di carattere generale sui quali appare davvero indispensabile promuovere un ampio dibattito pubblico. La domanda da cui partire è la seguente: come e perché è potuto accadere?  Al di là degli errori e delle responsabilità dei singoli dobbiamo chiederci se c’è qualcosa cosa che non funziona nell’ordinamento normativo, nelle procedure, nell’attribuzione delle competenze, negli equilibri tra apparati e/o nei meccanismi organizzativi.

Tra i tanti argomenti di riflessione sollevati dal caso Mori suggerisco ai lettori di concentrare l’attenzione su tre temi nettamente distinti sul piano concettuale e astratto, quanto intrecciati nell’analisi della “verità effettuale della cosa”, per dirla con Machiavelli. Ecco i tre spunti: raccolta di informazioni e altre operazioni che caratterizzano la polizia di prevenzione; conseguente gestione di fonti confidenziali a fini preventivi; divisione del lavoro tra investigatori e magistrati nelle attività di polizia giudiziaria con particolare riferimento al ricorso a fonti confidenziali.

Per comprendere bene di cosa stiamo parlando è d’obbligo ricordare che alla fine degli anni Settanta in buona parte della Sicilia Cosa Nostra oltre ad avere un controllo capillare e “militare” del territorio aveva l’abitudine di utilizzare alcuni politici, funzionari e amministratori pubblici per incrementare i propri traffici illeciti e/o per ottenere coperture istituzionali. I politici, amministratori e funzionari pubblici collusi ricevevano in cambio voti di partito e/o di preferenza, favori e in diversi casi anche consistenti vantaggi patrimoniali di provenienza illecita. In un contesto ambientale con queste drammatiche caratteristiche una delle figure politiche di maggior spicco è stato certamente Vito Ciancimino. Cito l’ex sindaco di Palermo perché sui rapporti tra lui e gli ufficiali del Ros viene costruito gran parte del castello di accuse relative alla cosiddetta Trattativa Stato-mafia.

Coltivare e avvalersi di fonti confidenziali, avere relazioni con personalità a dir poco “chiacchierate”, negoziare possibili collaborazioni con la giustizia, non catturare tutti i membri di un’organizzazione criminale e/o terroristica per poter proseguire le indagini sono profili fisiologici di ogni attività investigativa efficace. Questo discorso non è mai stato fatto con la dovuta chiarezza all’opinione pubblica. Occorre inoltre precisare – senza troppi tecnicismi – che una parte di questa attività avviene nell’ambito della polizia di prevenzione volta a impedire che vengano commessi reati e a sventare minacce alla sicurezza pubblica, un’altra parte avviene dopo l’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro e in questo secondo caso gli investigativi operano in qualità di agenti e/o ufficiali di polizia giudiziaria. In tutte e due i casi la protezione delle fonti confidenziali è un imperativo per il successo delle indagini. Non a caso l’articolo 203 del codice di procedura penale prevede che il giudice non può obbligare l’agente e l’ufficiale di polizia giudiziaria a rilevare le fonti confidenziali di cui si avvale.

Il contrasto alle mafia, al terrorismo e alla corruzione comporta dunque dilemmi investigativi complicati, scelte rischiose (non solo per la propria incolumità), contatti spregiudicati dall’esito imprevedibile. Da quanto ho letto sui giornali i contatti e i colloqui investigativi con personaggi della statura politica di Ciancimino mi sono sempre apparsi come operazioni fisiologiche a prescindere dai risultati finali. Per inciso, Giancarlo Caselli ha pubblicamente dichiarato che la “regola aurea” che ha sempre seguito è stata quella di lasciare la gestione delle fonti confidenziali esclusivamente nelle mani della polizia giudiziaria.

Dopo la sua assoluzione, il generale Mori ha proposto l’istituzione di una Commissione di inchiesta sulla archiviazione da parte della Procura di Palermo delle informative mafia-appalti elaborate dai carabinieri del Ros, inchieste a cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino tenevano moltissimo.

L’idea di Mori mi sempre buona soprattutto se ricostruire quei fatti servirà non solo a far luce sul passato, ma a individuare alcuni tratti di continuità che legano i fenomeni criminali della Sicilia di ieri con quelli della Sicilia di oggi. In 30 anni molto, ma non tutto, è cambiato. Il pericolo di concentrare tutta l’attenzione solo sul passato, ma riflettere sul passato per capire meglio il presente stata la costante preoccupazione di Liliana Ferraro scomparsa il 24 febbraio dell’anno scorso, il giorno dell’invasione militare russa in Ucraina. Ripensando alle tante chiacchierate con Liliana mi è rivenuto in mente un episodio importante su cui è bene riaccendere i riflettori.

Il procuratore di Palermo in modo del tutto irrituale inviò al Ministro di Grazia e giustizia Claudio Martelli un plico contenente il rapporto del Ros su mafia-appalti. Falcone disse a Ferraro di richiudere immediatamente il plico perché andava rispedito al più presto al Procuratore di Palermo. Nell’audizione in Commissione Antimafia presieduta da Giuseppe Pisanu il 22 febbraio 2011, Ferraro ha precisato che il ministro Martelli nel rispedire il plico scrisse al Procuratore Pietro Giammanco che l’invio era un atto improprio e che un’analoga comunicazione sull’episodio fu inoltrata al Consiglio superiore della magistratura.

Come interpretare la spedizione del plico dal Procuratore di Palermo al ministro di Grazia e giustizia a Roma? Non sono in grado di rispondere, ma reputo questa domanda importante ai fini dell’inchiesta suggerita dal generale Mori.

Spero proprio di sbagliarmi, ma è possibile che per “bruciare” questo nuovo tentativo di ricostruire la verità nei prossimi giorni escano stralci e forse alcuni nominativi contenuti nell’informativa del Ros su mafia e appalti. A Firenze si dice “meglio avé paura che buscarne”. Per questo ho messo le mani avanti. Se dovessero esserci indiscrezioni di stampa nessun problema, sarebbe solo un ulteriore indizio che la materia è ancora scottante e che l’inchiesta suggerita da Mori è utile anche per illuminare il presente.

Perché serve l’inchiesta suggerita dal generale Mori. Scrive Marco Mayer

Serve non solo fare luce sul passato, ma anche individuare alcuni tratti di continuità che legano i fenomeni criminali della Sicilia di ieri con quelli della Sicilia di oggi. Il commento di Marco Mayer

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