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Che la Cina stia cercando di presentarsi agli occhi della comunità internazionale come attore benevolo sotto il profilo comunicativo non è di certo notizia dell’ultima ora. Fin dai tardi anni Novanta i documenti ufficiali del governo riportano la dicitura “Discourse Power”, quella capacità di media e istituzioni di Pechino di raccontare efficacemente la visione cinese del mondo in maniera efficace e convincente all’audience locale prima, estera poi. Concetto espresso in maniera puntuale anche da Xi Jinping, con il presidente attivamente impegnato a riproporre questa formula in numerosi interventi pubblici e dichiarazioni sin dal suo insediamento nel 2013.

Rafforzare le capacità di influenza del Dragone fuori dai confini nazionali passa attraverso forti iniziative pubbliche come il potenziamento dell’apparato di media e agenzie stampa controllato dallo Stato, o la serie di accordi bilaterali con testate straniere per la diffusione di contenuti informativi made in China, ma non solo. Il cosiddetto “potere narrativo” va ricercato e ottenuto anche finanziando attività sotto mentite spoglie e più difficili da rintracciare, e il dominio cyber appare particolarmente indicato per questo tipo di esigenza. Non è un caso quindi che, in un intervento ufficiale del 2016, lo stesso Xi abbia esplicitamente menzionato il “Discourse Power” come parte integrante delle attività cibernetiche portate avanti dalle nazioni più influenti sullo scacchiere globale. Secondo il leader, la partita della cybersecurity non è “solo una questione tecnica, ma anche di idee e di forza discorsiva”. Sembra quindi che non ci sia da sorprendersi se in anni più recenti le Big Tech come Google, Meta o Twitter abbiano dovuto affrontare una presenza sempre più massiccia di operazioni di influenza (in ambito sicurezza note come Information Operations, o Info-Ops) allineate con gli interessi strategici di Pechino.

Questo tipo di attività malevole, che mascherano la fonte originale delle informazioni mediante diverse tecniche come la creazione di account finti (sockpuppet) o l’automatizzazione di un elevato numero di profili usa e getta noti come bot, sono congeniali alla disseminazione di narrazioni pro Cina in almeno due direzioni. In primis, per rispedire al mittente in maniera indiretta eventuali accuse, critiche o controversie mosse da Stati stranieri nei confronti di Pechino. All’interno di questa visione strategica si possono incasellare diverse campagne osservate sulle piattaforme digitali, come quelle finalizzate ad invertire le narrazioni ostili al Dragone in merito alla regione dello Xinjiang e all’etnia turcofona musulmana degli uiguri. Altre ancora hanno preso di mira i dissidenti sinici e i rifugiati all’estero che osteggiano il Partito comunista cinese, con nutriti gruppi di account fake che distribuivano sui social network cartoon politici che ridicolizzavano gli oppositori, ritratti come traditori o schiavi degli Stati Uniti.

Uno degli esempi osservati più di recente riguarda le comunità cinesi all’estero ed alcune accuse mosse al Dragone in materia di sicurezza internazionale. A fine 2022, l’Ong spagnola Safeguard Defenders pubblica un controverso rapporto sulle presunte stazioni di polizia segreta controllate da Pechino e sparse in tutto il mondo. Una di esse avrebbe sede negli uffici di un’app di food delivery di Londra e fondata da un imprenditore cinese residente nel Regno Unito. Fin dallo scorso dicembre, un network di account creati ad hoc su Twitter e YouTube ha iniziato la diffusione coordinata e massiva di un video dove le accuse venivano rispedite al mittente, sfruttando due hashtag dedicati alla campagna scritti in cinese semplificato e in inglese. L’uso della lunga e articolata stringa testuale in lingua inglese  #ThisispureslanderthatChinahasestablishedasecretpolicedepartmentinEngland, in particolare, sembra quasi voler sfidare il team Trust and Safety di Elon Musk in materia di moderazione dei contenuti. Alcune stime suggeriscono come un cluster di questo tipo possa contare sull’attività di migliaia di profili fake sulla piattaforma, che lavorano in maniera sincronizzata per distribuire un link (link sharing) o gonfiare le conversazioni su un particolare argomento (hashtag spamming).

Non sempre però i gruppi di account vengono impiegati a scopo difensivo. Come dimostrato in più occasioni, questi eserciti di terracotta digitali sono in grado di portare avanti Info-Ops a carattere offensivo anche contro enti privati stranieri o altri Stati. Alcuni esempi? La campagna di disinformazione nel settore delle terre rare, che ha investito diverse compagnie private australiane e americane operanti sul mercato, oppure le attività malevole contro le operazioni cyber della National Security Agency. Nonostante gli analisti ritengano correttamente che queste iniziative di influenza sotto copertura abbiano un impatto molto limitato sul pubblico di riferimento, ciò che lascia con il fiato sospeso è la crescente sofisticazione nello sviluppo di queste tecniche. Alla luce dell’elevata automazione e della crescita esponenziale nel numero di servizi online per portare avanti campagne multipiattaforma, il rischio concreto è che queste attività pro-Pechino si moltiplichino, si raffinino e possano arrivare a investire anche l’infosfera europea.

Come funzionano le Info-Ops pro Cina in rete. L’analisi di Berger

Di Federico Berger

Elevata automazione e crescita esponenziale nel numero di servizi online potrebbero far sì che queste attività a favore di Pechino si moltiplichino e arrivino a investire anche l’infosfera europea

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