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È il tema caldo per tutti i giornalisti, i diplomatici, gli analisti, i commentatori e gli addetti ai lavori stranieri che si interessano all’Italia negli ultimi tempi. Diventerà ancora più caldo nelle prossime settimane in vista del summit dei leader del G7 convocato a Hiroshima, in Giappone, dal 19 al 21 maggio. E rappresenta per l’Italia e per il governo di Giorgia Meloni da una parte l’opportunità di distinguersi nel rapporto transatlantico dopo le dichiarazioni del presidente francese Emmanuel Macron e le incertezze del cancelliere tedesco Olaf Scholz, dall’altra l’occasione di un altro pasticcio all’italiana.

Si tratta della decisione sul memorandum d’intesa sulla Via della Seta, con la cui firma nel marzo 2019 il governo gialloverde presieduto da Giuseppe Conte ha reso l’Italia il primo e ancora unico Paese ad aderire al progetto espansionistico di Pechino. Per decidere c’è tempo fino a fine anno. Infatti, l’intesa prevede un’estensione automatica di altri cinque anni a meno che una delle due parti comunichi all’altra la volontà di compiere un passo indietro e lo faccia entro tre mesi dal rinnovo automatico.

Della questione si è recentemente occupata l’agenzia Bloomberg: prima ha rivelato una visita a Taipei di funzionari del ministero delle Imprese per valutare il rafforzamento della cooperazione sui semiconduttori con l’Italia che “potrebbe essere disposta” in cambio a non rinnovare il memorandum; poi ha fatto un punto della situazione sottolineando che l’intesa del 2019 “non ha portato a una maggiore integrazione tra Italia e Cina rispetto ad altri Paesi dell’Unione europea”, che “la posta in gioco” sul rinnovo “è sia economica sia diplomatica, con il rischio di ritorsioni cinesi”, che la decisione attesa per il summit G7 potrebbe essere annunciata più avanti e che Meloni non ha ancora risposto ufficialmente all’invito da parte di Xi Jinping a Pechino (nella capitale cinese è atteso prossimamente il nuovo ambasciatore italiano, Massimo Ambrosetti, pronto a prendere il posto di Luca Ferrari, diventato sherpa G7/G20 a Palazzo Chigi).

Da Washington arrivano consigli a Roma e al governo Meloni. Anche dalla sponda vicina al Partito repubblicano. “L’Italia dovrebbe sganciarsi dalla Belt and Road cinese” è invece il titolo di un commento pubblicato su 19FortyFive e firmato, tra gli altri, da James Jay Carafano, vicepresidente del think tank Heritage Foundation. Ma, visto che la Cina è una – forse l’unica – questione bipartisan negli Stati Uniti, anche centri di ricerca meno connotati politicamente suggeriscono la stessa mossa all’Italia. Su Formiche.net si sono espressi in questa direzione sia Zack Cooper, senior fellow dell’American Enterprise Institute di Washington e docente all’Università di Princeton, sia Carisa Nietsche, ricercatrice associata del Transatlantic Security Program presso il Center for a New American Security.

Quando il gioco s’è fatto duro con l’invasione russa dell’Ucraina, l’Italia non ha esitato a sostenere con ogni mezzo Kyiv. Ma ora che si tratta di Cina come si muoverà il governo? Con un passo indietro l’opportunità può essere duplice: conquistare un ruolo ancor più centrale nelle relazioni transatlantiche vista la fase che stanno attraversando Francia e Germania e cambiare la percezione dell’Italietta agli occhi degli alleati. Percezione che rischierebbe di rimanere nei casi di una visita di Meloni in stile “macroniano” a Pechino o della firma di un altro accordo commerciale (ipotesi caldeggiata in zona Farnesina) privo delle implicazioni politiche del memorandum d’intesa sulla Via della Seta ma che consenta di dire che l’Italia lavora per mantenere buone relazioni con la Cina e di evitare una dura reazione di Pechino.

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