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Da tempo, ormai, la Capitale Italiana della Cultura rappresenta un elemento rilevante nella relazione tra il Ministero della Cultura e il territorio italiano.

Un’iniziativa che, senza dubbio, ha in questo senso ottenuto un discreto successo a giudicare dal numero di città che ogni anno propongono la propria candidatura.

Atteso l’interesse delle Amministrazioni, e superata ormai, quella che potrebbe essere definita come la fase di start-up, è forse opportuno iniziare ad immaginare un ruolo più strutturato, e che tale ruolo sia, in qualche modo, esplicitato, così da poter garantire anche che le candidature possano perseguire obiettivi condivisi.

In altri termini, è forse opportuno trasformare l’iniziativa Capitale Italiana della Cultura in un vero e proprio strumento di policy, mediante il quale il nostro Paese, e il Ministero, definisce una macro-area di obiettivi che persegue poi attraverso progettualità delle singole candidate.

Ed è forse opportuno che questa “policy” venga definita non soltanto secondo delle indicazioni di natura politica, ma che si inscriva con maggiore coerenza nell’insieme delle iniziative, ordinarie e semi-straordinarie, di governo del territorio.

Sino ad oggi, il dibattito intorno al tema della Capitale Italiana della Cultura si è concentrato su due dimensioni principali: la prima, che potremmo definire come una dimensione polemica, si è caratterizzata per la presenza di riflessioni tendenzialmente puntuali e contingenti,  volte a criticare, caso per caso, elementi specifici delle attività previste dai singoli programmi o legati agli aspetti più concretamente operativi e di implementazione delle stesse; critiche che si sono rivelate non sempre esenti da elementi di faziosità. La seconda dimensione del dibattito, invece, che propone invece una prospettiva più ampia, si è spesso concentrata sugli impatti che le iniziative hanno prodotto, nazionalizzando, tra l’altro, un dibattito già in precedenza avviatosi in ambito internazionale con riferimento alle varie Capitali Europee della Cultura.

Se però intendiamo trasformare un’iniziativa in una policy, è opportuno che a queste dimensioni del dibattito, che sono più che legittime e, quando non faziose, importantissime, venga associata anche un’ulteriore dimensione di confronto, che si i soffermi sulla natura stessa della Capitale Italiana della Cultura, e sulla tipologia di obiettivi che, con tale misura, il nostro Paese intende perseguire.

Sviluppare, in altri termini, una riflessione che guardi alla Capitale Italiana della Cultura secondo una logica strategica.

Perché malgrado ci siano state edizioni più fortunate o meglio progettate di altre, non è ancora del tutto chiaro se la Capitale Italiana della Cultura rappresenti quello che da molti è stato definito un eventificio, o se invece rappresenti una scelta di politica.

Sinora questo elemento è stato tendenzialmente lasciato alla discrezione delle Amministrazioni, con dossier che proponevano una serie di investimenti strutturali importanti che si scontravano invece con dossier che attualizzavano investimenti già in corso per poi destinare gran parte delle nuove risorse alla realizzazione di mostre, concerti e spettacoli.

A sostegno di questa “autonomia”, c’è sicuramente una dimensione di coerenza con gli obiettivi di sviluppo delle varie Amministrazioni. Ma il rischio è che così facendo, la Capitale Italiana della Cultura divenga un evento tendenzialmente anonimo.

In più, c’è da ribadire che le risorse non sono affatto esigue: la recente comunicazione conclusiva di Procida Capitale Italiana della Cultura, ad esempio, ha affermato che sono stati investiti un totale di 18 milioni di euro.

Una cifra che può risultare enorme, a chi considera che Procida conta circa 10.000 abitanti e si estende su un’area di pochi chilometri. Ma è anche una cifra che può sembrare appena sufficiente se si prendono invece in considerazione progettualità volte a potenziare le infrastrutture necessarie per poter realizzare un riposizionamento di medio periodo dell’isola, e un incremento della propria capacità di integrazione con le economie territoriali di riferimento.

Le informazioni che vengono condivise e diffuse, però, consentono di determinare, in buona sostanza, se Procida o Matera abbiano rispettato quanto indicato dal singolo dossier di presentazione, ma non permettono, ad esempio, di comparare tali risultati con altre esperienze analoghe.

Soprattutto, non è possibile determinare se la Capitale Italiana della Cultura nella sua interezza sia o meno efficace per il nostro Paese, demandando tale valutazione alla singola città, alla singola organizzazione, alla singola contingenza specifica.

Trasformare la Capitale Italiana della Cultura in uno strumento di policy, quindi, richiede in primo luogo stabilire a cosa in realtà serva mantenere tali finanziamenti attivi, quali obiettivi si vogliano realmente perseguire.

Ottenuto questo obiettivo, diviene poi possibile approfondire la riflessione e iniziare a considerare quali sinergie sia possibile creare per rendere la Capitale Italiana della Cultura più efficace.  Modificandone la struttura, forse. O estendendone il periodo di finanziamento. Prevedendo una diversificazione temporale che suddivida un intervento “strutturale” e un intervento “corrente”, e prevedendo che le città possano accedere alla seconda parte dei finanziamenti soltanto a fronte del rispetto delle tempistiche e dei budget concordati per la parte di investimento.

Sono, in definitiva, tantissimi gli elementi che possono essere presi in considerazione.

Per comprendere quali siano però quelli più efficaci, è però necessario capire su “cosa” tale efficacia possa essere misurata.

Perché se vogliamo fare 300 eventi, e inondare la rassegna stampa di un Comune è un discorso. Se vogliamo sviluppare la capacità di un territorio di attrarre investimenti, e di rinnovare la struttura imprenditoriale di una determinata area del nostro Paese, il discorso è un altro.

Tutto qui.

Quali obiettivi per le capitali Italiane della cultura

Se vogliamo fare 300 eventi, e inondare la rassegna stampa di un comune è un discorso. Se vogliamo sviluppare la capacità di un territorio di attrarre investimenti, e di rinnovare la struttura imprenditoriale di una determinata area del nostro Paese, il discorso è un altro. Il punto di Stefano Monti, partner di Monti&Taft

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