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Questa mattina, tre persone sono state colpite da proiettili nella Città di David, nella zona di Silwan: sono ferite, in ospedale, due in gravi condizioni. È un attentato, il secondo a Gerusalemme in meno di ventiquattro ore. Vicende che fanno piombare il governo di Benjamin Netanyahu in un incubo a poche settimane dall’inizio del mandato, anche perché nell’attacco di venerdì sera sono state uccise sette persone. L’episodio, ancora da delineare sotto alcuni elementi (soprattutto quelli organizzativi), è avvenuto in una fase delicata degli equilibri con i palestinesi. Una sinagoga è stata attaccata a Gerusalemme Est, ossia nei territori cosiddetti “occupati” dagli israeliani, e dopo che due giorni prima a Jenin, in Cisgiordania, c’erano stati pesanti scontri tra palestinesi e forze di sicurezza israeliane.

Stando a quella che pare la ricostruzione più solida per il momento, un uomo ha sparato a un gruppo di persone che stava uscendo dalla sinagoga a Neve Yaakov, un quartiere a una decina di chilometri a nord del centro della città, in cui vivono molti israeliani ultraortodossi.

Khairi Alqam, un palestinese del quartiere A-Tur di Gerusalemme Est, è stato identificato come l’attentatore. La polizia ha dichiarato che ha aperto il fuoco contro i fedeli che uscivano dal luogo di culto e poi è fuggito dalla scena a bordo di un’auto. Quando le autorità hanno bloccato Alqam non lontano dalla scena dell’attacco, l’uomo ha aperto il fuoco contro la polizia e, dopo un breve inseguimento, è stato ucciso.

Se l’elemento della coincidenza con la Giornata della Memoria è inquietante e “odiosa”, come ricordato nel messaggio di sostegno inviato dal segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres, ciò che allarma è la portata dell’attacco. Occorre correre indietro anni per trovare un’azione con la stessa quantità di vittime. Mentre soltanto due mesi fa, due esplosioni avevano colpito due diverse fermate di autobus sempre a Gerusalemme. Solo una persona era rimasta uccisa, con oltre venti feriti, ma quelli di novembre erano stati altri segnali pessimi.

Israele soffre una condizione di tenuta interna. Le tensioni tra arabi ed ebrei (non solo palestinesi, ma anche arabi-israeliani) stanno crescendo verso un punto critico. Se gli Accordi Abramo hanno segnato un grande successo nella normalizzazione delle relazioni politiche tra Israele e alcuni stati arabi, gli equilibri a livello socio-culturali inferiori ancora non sono stati toccati. Anzi, la questione palestinese è accesa (forse anche riaccesa dalle dinamiche stesse degli accordi) tra la popolazione comune.

Gli Accordi sembravano parzialmente marginalizzarla, tenerla da parte come secondaria, in una sorta di limbo che in futuro si sarebbe assestata su uno status quo perché dimenticata da tutti se non dai palestinesi. Non sta andando esattamente così: nel percorso di emancipazione culturale che alcune popolazioni arabe come quelle del Golfo stanno vivendo, il destino della Palestina occupa ancora un ruolo simbolico. È parte di un pensiero in sviluppo che mira a una sovranità araba: occuparsi dei palestinesi è sentito come un dovere ideologico, per dimostrare di non essere del tutto contaminati dal mondo globalizzato. È qualcosa che si è visto durante i Mondiali in Qatar.

I gruppi armati stanno approfittando del contesto per rilanciare le proprie campagne di proselitismo. Da lì creare nuove reti e azioni. E il nuovo governo israeliano — al cui interno ci sono figure ultra-nazionaliste e ostili ai palestinesi — è il terzo degli elementi che rischia di esasperare la situazione.

Hamas, il gruppo terroristico a cui i gaziani nel 2017 hanno affidato il controllo della Striscia, ha parlato di “reazione naturale” ai fatti di Jenin. Giovedì, le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso dieci persone in una delle più importanti operazioni lanciate negli ultimi anni: un blitz all’interno del campo profughi che si trova in Cisgiordania (in altri territori che vengono considerati occupati dai palestinesi). L’obiettivo era anticipare un attacco terroristico che alcune degli abitanti del campo di Jenin — uno dei luoghi storici della guerriglia palestinese — stavano organizzando.

Nel raid ci sono stati scontri anche tra soldati e cittadini comuni, i primi hanno reagito sparando, e hanno ucciso e ferito dei civili. Altre delle vittime erano invece membri di gruppi armati palestinesi. Una fonte palestinese lo definisce “il giorno più sanguinoso degli ultimi due decenni” e “anche per questo abbiamo visto i festeggiamenti malati dopo l’attentato alla sinagoga”. Immagini raccapriccianti di persone in strada a festeggiare la strage di israeliani a a Gerusalemme sono state riprese a Gaza, Nablus, Jenin e Ramallah.

Da varie parti del mondo sono arrivate parole di condanna e sostegno per Israele. Da Washington Joe Biden ha chiamato Netanyahu assicurandogli appoggio nella lotta al terrorismo, anche perché l’attentato è arrivato in un momento particolare. Il capo della Cia, William Burns, è in Israele per incontri a Gerusalemme e poi a Ramallah (oggi dovrebbe vedere il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas). Prima ancora, la scorsa settimana, era toccato al consigliere per Sicurezza Jake Sullivan: un viaggio che era servito anche come momento organizzativo della visita del Segretario Antony Blinken, che direbbe arrivare lunedì 30 gennaio per incontrare sia i leader palestinesi e israeliani. Sempre in questi giorni, si è svolta una maxi esercitazione congiunta tra Israele e Stati Uniti. Finora il principale degli argomenti di questi contatti è stato il contenimento dell’Iran, ma la questione palestinese sta prendendo spazio con forza.

La questione palestinese è ancora aperta. Sangue in Israele

Dopo i fatti di Jenin, un attentato spietato contro i fedeli di una Sinagoga mentre stamattina tre persone sono state colpite da proiettili a Gerusalemme. Il governo Netanyahu, che ospita in questi giorni delegazioni statunitensi, si trova a dover fare i conti con il terrorismo e con il prepotente ritorno sul tavolo della questione palestinese

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