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La Cina, si dice, è abituata ai tempi lunghi. “Nascondi la tua forza, aspetta il tuo momento”, raccomandava Deng Xiaoping (1904-1997), il timoniere dell’approdo dal maoismo all’economia capitalista. E, però, l’attuale comandante cinese, Xi Jinping, vuoi perché non è propriamente un apostolo del vangelo denghista vuoi perché non vede l’ora di accelerare i tempi di alcune partite in sospeso, dà invece sempre di più l’impressione di voler esibire la sua forza e non di voler aspettare più di tanto il provvidenziale momento propizio.

La principale partita in sospeso che il governo di Pechino vuole riaprire, vincere e concludere al più presto si chiama Taiwan. E siccome, nell’era della geopolitica, non ci sono dossier slegati o scollegati l’uno dall’altro, è da presumere, anzi se ne può essere certi, che la posizione di Xi sulla guerra della Russia all’Ucraina, dipenda e dipenderà sempre dall’atteggiamento Usa sulla vicenda Taiwan.

Non è da poco che Pechino manifesta la volontà di annettersi l’isola su cui si rifugiarono i nazionalisti ostili al verbo di Mao Zedong (1893-1976). Per decenni l’ombrello americano ha garantito protezioni di ogni tipo a questa dinamica democrazia asiatica. Ma, anno dopo anno, il pressing di Pechino per la riunificazione nella Grande Cina, si è fatto sempre più arrembante, tanto che negli stessi Usa sono in pochi a scommettere su una difesa a oltranza di Taiwan da parte di Washington, perché non sarebbero molti gli americani disposti a morire per un alleato tanto lontano.

Ma il momento fatidico in cui Washington potrebbe rinunciare a difendere ad ogni costo la piccola nazione asiatica è ancora di là da venire. Per la semplice ragione che nell’isola in cui si rifugiò il generale Chiang Kai-shek (1887-1975) dopo la sconfitta inflittagli dalle truppe di Mao, si realizza oggi più della metà della produzione mondiale di semiconduttori, con percentuali ancora superiori per i semiconduttori più sofisticati. Senza i microchip che caratterizzano l’odierna telefonia mobile e nutrono quasi tutte le altre imprese tecnologiche, l’Occidente farebbe un balzo a ritroso di decine di anni. Un sacrificio che nemmeno il più arrendevole tra i leader dell’Ovest potrebbe consentirsi a cuor leggero, pena l’avvio di una fase di decrescita che sarebbe inaccettabile e insostenibile persino per i pauperisti più accaniti. Di conseguenza gli Usa non molleranno Taiwan. E se un giorno la molleranno in cambio di una franchigia che consenta una discreta autonomia al governo di Taipei, vorrà dire che quel giorno l’America e l’Occidente avranno raggiunto l’autosufficienza in materia di semiconduttori. Prima di questo traguardo, nessun presidente Usa si girerebbe dall’altro lato se la Cina continentale s’impossessasse del prezioso territorio dirimpettaio.

E, allora, possiamo solo immaginare, non discostandoci forse dal vero, i termini dell’interlocuzione in corso tra Xi e Joe Biden. È assai verosimile che il capo cinese, direttamente o indirettamente, faccia all’inquilino della Casa Bianca un discorso di tal guisa: “Caro presidente Biden, a me sta molto a cuore l’operazione Taiwan, che vorrei portare a conclusione prima che, per ragioni di età, io debba essere costretto a lasciare la guida del governo cinese. Ecco perché ti propongo questo scambio. Tu, America, ti prendi il controllo dell’Ucraina e io mi prendo la sovranità di Taiwan. Se accetti questa mia proposta, un attimo dopo chiamo Vladimir Putin e gli comunico di non poterlo più seguire e sostenere sul caso Ucraina. E Putin sa di non avere vie d’uscita: o accetta quanto gli comunico o può dire addio a potere e sogni di gloria. Insomma, la guerra in Ucraina può cessare in un minuto, caro presidente Biden, se non ti metti di traverso al mio obiettivo di inglobare Taiwan sotto la potestà di Pechino”.

Ovviamente Biden non può rispondere: “Bene, bravo, si accomodi a Taiwan e se l’annetta pure, caro presidente Xi”. Uno, perché l’America perderebbe faccia e credibilità presso tutti i suoi governanti amici sparsi nel pianeta. Due, perché l’America non è ancora in grado di garantire per sé e per gli alleati la sostituzione, la copertura di tutta la produzione tecnologica importata finora dall’isola del tesoro (in semiconduttori). L’America ha ancora bisogno di tempo per concedersi il lusso di non dipendere più dalle forniture tecnologiche taiwanesi. Idem l’Europa. Di conseguenza il baratto, che farebbe felici i cinesi di Xi, non può essere accettato dagli Usa. Concetti, questi, che verosimilmente Biden avrà ripetuto più volte a Xi, con la speranza di rabbonirlo. “Caro presidente Xi – gli avrà ridetto Biden – non posso assolutamente prendere in considerazione l’ipotesi di uno scambio Ucraina-Taiwan sotto le nostre due rispettive zone d’influenza. Non posso venirle incontro sia perché l’America si è sempre dovuta pentire quando ha lasciato al proprio destino una nazione amica, specie quando è una democrazia, sia perché oggettivamente io non sono ancora in grado di rinunciare ai semiconduttori prodotti da Taiwan”.

Ciò detto un’eventuale ritirata strategica americana sul fronte Taiwan potrebbe dipendere, dopo l’eventuale autosufficienza Usa nel campo dei microchip, soltanto dall’atteggiamento concreto della popolazione isolana. Se la gente di Taiwan sarà irriducibile contro la sottomissione a Pechino, sarà un conto. Se la sua reazione sarà fiacca, sarà un altro conto, di sicuro più compromissorio (ma sotto la regia Usa).

Non sappiamo se davvero la Cina abbia alzato il prezzo sull’Ucraina, presentando un piano di pace conveniente a Putin, con il retropensiero di ottenere dagli Usa la contropartita su Taiwan. Ma tutto lascia supporre che la strategia di Xi vada in questa direzione, anche se l’imperatore cinese è il primo a sapere che l’America non può permettersi un appeasement in versione 21mo secolo. Circolano troppe armi e troppe teste calde nel mondo per potersi rassegnare a chiudere un occhio.

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