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È difficile pensare che, con la semplice stretta fiscale e monetaria, sia possibile aggredire l’inflazione, senza far sprofondare l’economia in un baratro più profondo. Le vecchie ricette, sperimentate negli anni passati e rievocate recentemente dal Fondo monetario internazionale, risultano pertanto, quanto meno, indigeste. Ma mentre queste indicazioni sono facili da seguire a livello di banche centrali, considerato l’ambiente tecnico in cui le relative decisioni sono prese; tutto si complica maledettamente quando entrano in ballo i governi, e le relative scelte politiche. E infatti abbiamo visto quante numerose (Finlandia, Francia, Spagna, Portogallo e non ultima Italia) siano state le voci, che si sono levate contro le scelte recenti della Banca centrale europea.

Conviene allora entrare più in profondità. Cominciando con il rilevare quella che è una costante: vale a dire la dipendenza della Banca centrale europea dalla Federal reserve statunitense. Vecchio rapporto, che esisteva anche quando la sovranità monetaria apparteneva ai singoli Stati europei. Agli inizi degli anni Ottana, per combattere la forte inflazione, Paul Volcker, presidente della Fed, decise una durissima stretta monetaria. I tassi ballarono intorno al 15 per cento per combattere un’inflazione a doppia cifra. La Bundesbank prima e la Banca d’Italia dopo furono costrette ad adeguarsi. In Italia il risultato, fu una forte crescita del debito (spinto dal peso crescente degli interessi), destinato a caratterizzare l’intero decennio.

Per il momento non si è raggiunto quell’eccesso. Sia negli Stati Uniti sia in Europa i tassi di riferimento sono di gran lunga inferiori a quelli dell’inflazione. La stretta, che pure esiste rispetto al periodo precedente, morde quindi in misura minore. Ma bisogna vigilare. Soprattutto perché l’inflazione, al di là e al di qua dell’Atlantico, ha caratteristiche diverse. Nel caso americano è più “da domanda”, in quello europeo più “da costi”. Legata cioè al forte rincaro dei prezzi dei prodotti energetici.

Le due situazioni hanno alcuni elementi in comune, ma anche profonde differenze. L’elemento comune è dato dalla presenza di una stessa aspettativa. Quando l’inflazione aumenta, famiglie ed imprese tendono ad anticipare gli acquisti. Per ottenere oggi quei beni, che domani dovranno acquistare a un prezzo maggiore. Nel breve periodo si ha pertanto un aumento, per così dire, anomalo della domanda e quindi una spinta ulteriore all’aumento dei prezzi. In questo caso una leggera stretta, sia monetaria che fiscale, consente di tenere sotto controllo l’andamento del ciclo.

Le analogie, tuttavia, finiscono qui, mentre aumentano le differenze. Se l’inflazione è da costi, non ha molto senso comprimere la domanda. Al contrario obiettivo prioritario, seppure in un orizzonte di medio periodo, è quello di potenziare l’offerta. Dal nuovo incontro tra domanda e offerta deriverà infatti la necessaria stabilizzazione dei prezzi relativi. Comprimendo, invece, la domanda si ottengono risultati opposti. Il processo di riconversione produttiva, necessario per aumentare l’offerta, incontra maggiori difficoltà e il processo di aggiustamento risulta più lento ed indefinito.

Se poi la causa prevalente della crescita dei prezzi è data principalmente dall’anomalo comportamento di un singolo settore, come può essere l’energia, allora le contraddizioni indicate in precedenza sono destinate ad aumentare. Basti vedere il caso italiano, emblematico di una situazione di carattere più generale.

Gli ultimi dati Istat certificano il forte aumento dei costi legati all’energia. Dall’invasione dell’Ucraina, da parte russa, il peso delle importazioni di prodotti energetici, è passato da una media (tra agosto 2020 e giugno 2021) del 9,8 per cento del costo complessivo delle importazioni, al 27,9 per cento. Quasi tre volte tanto. A causa dell’aumento del prezzi del petrolio che è raddoppiato (da 55 dollari al barile in media a 108) e di quello del gas è addirittura aumentato di sei volte e mezza. Con i futures che sono passati da una media di 21,7 euro a 141,9. Andamenti che hanno fatto lievitare il peso delle importazioni di prodotti energetici sul prodotto interno lordo. Nel 2020, questa percentuale era pari al 2 per cento per raggiungere invece il 7,9 per cento, nel secondo trimestre dell’anno in corso.

Questi rapporti indicano chiaramente come non abbia senso cercare di comprimere, esclusivamente, il prodotto interno lordo per giungere alla riduzione dei costi energetici, necessaria per contenere l’inflazione. Il rapporto sarebbe, infatti, di quasi 13 a 1. Di tanto si dovrebbe comprimere la domanda complessiva, per giungere a un risparmio, pari a 1 punto percentuale.

Essendo irrealistica questa prospettiva, l’alternativa va ricercata altrove. In un complesso di misure, tra loro coordinate. Proviamo ad indicarle.

Prima: la domanda globale, innanzitutto, va contenuta. Non tanto per abbattere i consumi energetici, ma per evitare gli effetti emulativi (anticipazione degli acquisti) di cui si diceva in precedenza. Ne consegue la necessità di un adeguato controllo della spesa da parte dello Stato. Le risorse esistenti devono essere prioritariamente utilizzate per ridurre il costo delle bollette a famiglie ed imprese, nel segno dell’equità. Altre misure (flat tax, pensioni, cuneo fiscale e via ducendo) dovranno essere rinviate a tempi migliori. La stesso aumento nell’uso del contante deve essere attentamente valutato. Non tanto per ragioni di lotta all’evasione, ma proprio per non favorire i maggiori consumi, che alimenterebbero ulteriormente la spirale dell’inflazione.

Seconda: gli sforzi maggiori dovranno essere riposti per abbattere i prezzi dei prodotti energetici. Quindi grande impegno sul fronte europeo, per rendere effettive le decisioni dell’ultimo Consiglio europeo: price cap, decoupling, nuovi indicatori di prezzo a livello internazionale per tagliare le unghie della speculazione, fondo europeo per venire incontro ai Paesi più fragili. Mentre sul fronte interno si dovrà fare il possibile per aumentare l’offerta. Quindi sblocco di quelle procedure che finora hanno ritardato la realizzazione di impianti green: dall’eolico al solare. Sfruttamento delle riserve di gas, vincendo le resistenze ideologiche di tanti ambientalisti di rito luddista. Diversificazione delle fonti: a partire dalla realizzazione del rigassificatore di Piombino. Ripensamento sul nucleare, per lanciare un segnale potente ai Paesi di Opec+, spingendoli alla moderazione.

Terzo: contenere, per quanto possibile, il consumo di energia sia sul fronte dei comportamenti individuali che pubblici. Ne deriva che un aumento dei prezzi, seppure limitato nel tempo e nella dimensione, rappresenta una scelta, purtroppo, inevitabile: per evitare che le esortazioni a favore di un consumo più responsabile non risultino essere una delle tante “prediche inutili” di einaudiana memoria.

Saranno sufficienti queste scelte per bypassare la crisi? In questi casi, un pizzico d’ottimismo è il migliore antidoto. Lo scorso 26 agosto i futures sul gas avevano raggiunto il loro massimo relativo (339,2 euro), le ultime quotazioni sono, invece, inferiori a 100. Più o meno negli stessi giorni il prezzo del Brent era stato pari a 129,7 dollari al barile. Recentemente il prezzo del greggio si è attestato sui 92 dollari. Insomma qualcosa si muove. Al punto da sperare, considerato anche gli esiti non certo brillanti dell’invasione russa in Ucraina, che il peggio potrebbe essere, almeno in una certa misura, alle nostre spalle. Aiutiamoci, quindi, affinché Dio ci aiuti.

Tre ingredienti per aggredire l’inflazione. La ricetta di Polillo 

Qualcosa forse si muove ma dobbiamo fare la nostra parte. La domanda globale va contenuta. Servono sforzi per abbattere i prezzi dei prodotti energetici. Bisogna limitare, per quanto possibile, il consumo di energia

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