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Ancora poco più di 48 ore e si capirà se il Monte dei Paschi avrà un futuro tutto sommato tranquillo, oppure sarà destinato a tribolare ancora. A Siena sono giornate di tensione e speranza, in vista dello showdown di lunedì prossimo, quando si chiuderà la finestra per la ricapitalizzazione da 2,5 miliardi della banca più antica del mondo. Operazione che sta subendo non pochi intoppi. Molti investitori non sono interessati a sottoscrivere le nuove azioni che finiranno dunque, a prezzi scontati, alle banche che compongono il consorzio di garanzia. E spesso la Borsa ha mandato segnali di sfiducia.

Senza considerare che le stesse banche del consorzio potrebbero incassare commissioni per circa 125 milioni di euro, più di quello che Mps vale in Borsa, circa 20 milioni. Vicenda su cui sembra si stia iniziando a muovere l’Antitrust europeo che sente odore di aiuti di Stato anche e non solo su input di un investitore estero con interessi nella banca toscana, che ha addirittura presentato alla Bce una richiesta per bloccare l’aumento di capitale. Ma a Siena, da qualunque parte la si voglia vedere, quei 2,5 miliardi servono.

Senza questi denari, niente piano industriale, niente prepensionamenti, uscite, insomma niente cura dimagrante. Sono oltre 4 mila le domande per salutare il Monte dei Paschi, costo quasi un miliardo, mossa che servirà ad abbattere i costi di oltre 270 milioni annui già dal 2023, come preannunciato dal ceo Luigi Lovaglio mentre il resto servirà a puntellare invece il capitale. E, soprattutto, niente speranze di consentire al Tesoro, azionista al 64%, di lasciare Rocca Salimbeni e restituire la banca al mercato. Ora, 1,6 miliardi di euro sono già pronti, sotto forma di assegno firmato dallo stesso Mef, che fin da subito si era reso disponibile a sottoscrivere la ricapitalizzazione. Ma mancano 900 milioni, non proprio spiccioli.

E qui entrano in gioco le Fondazioni bancarie, chiamate direttamente dal Tesoro nell’ambito di un’operazione di sistema che punta a ingaggiare in prima battuta gli enti, per poi, in un secondo momento, coinvolgere direttamente alcuni istituti di primo piano, molti dei quali partecipati dalle fondazioni stesse. Una fonte che conosce il dossier Mps ha spiegato a Formiche.net il canovaccio dietro le manovre per evitare che la banca toscana vada a gambe all’aria.

Premessa: fondazioni ed enti previdenziali stanno aderendo in ordine sparso allo sforzo per la ricapitalizzazione. Se Cariplo e Compagnia San Paolo, i primi due enti filantropici italiani per dimensione patrimoniale, nei giorni scorsi hanno approvato un investimento di 10 milioni ciascuno nell’ambito dell’aumento di capitale senese, Crt ha optato per 5 milioni, mentre Cariverona ha detto no all’operazione caldeggiata dal Tesoro.

Ma tanto basta a far scattare l’apertura di quella rete che dovrebbe portare Siena in acque più sicure. Sì, perché l’intervento delle fondazioni potrebbe essere un primo passo per un coinvolgimento più ampio degli istituti da esse rappresentati. In pratica, gli enti potrebbero fare da apripista per le banche che verranno chiamate da Via XX Settembre, in un secondo momento, a partecipare al capitale della banca senese. Non era possibile, viene spiegato, radunare subito gli istituti italiano, meglio cominciare dalle fondazioni, decisamente meno esposte ai rischi del caso. E poi, spettando non a Bankitalia, ma al Mef la vigilanza sugli enti, la moral suasion era assicurata.

Insomma, l’adesione delle fondazioni all’aumento è un’operazione di sistema per “stabilizzare la banca” e portare a buon fine un’operazione che poteva essere “complicata” ha detto oggi Francesco Profumo, che guida sia la Compagnia di San Paolo che l’Acri, l’associazione delle fondazioni bancarie. La presenza della principale realtà italiana in questo ambito, infatti, è percepita come una sorta di coagulante per gli altri enti. E poi, continua la nostra fonte, mandare in malora il Monte dei Paschi non conviene a nessuno, banche in primis.

Ma chi è l’architetto di una simile operazione? Non solo Mario Draghi. C’è anche la firma di Giorgia Meloni. Quando a luglio cadde l’esecutivo dell’ex presidente della Bce, quest’ultimo ha aperto un canale di comunicazione con la leader di Fratelli d’Italia e le forze di centrodestra, per trovare insieme una soluzione di sistema in attesa dell’appuntamento con la ricapitalizzazione. Soluzione che ha trovato il suo sbocco nel coinvolgimento delle fondazioni. Anche perché, viene confidato, Meloni ha fretta di chiudere la partita Mps, sia per poter dire di aver risolto un problema “creato dalla sinistra” sia per evitare una grana che può rendere ancora più complessa la navigazione politica del governo appena nato.

Mps, il paracadute Meloni-Draghi per salvare Siena

La chiamata a raccolta delle fondazioni da parte del Tesoro è un’operazione di sistema per stabilizzare la banca e portare a termine l’aumento di capitale. Con la regia non solo dell’ex premier, ma anche di quello attuale, che ha fretta di chiudere il dossier

 

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