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La convivenza tra i grandi asset managers e i fondi attivisti all’interno dell’azionariato delle società quotate non è mai stata pacifica. Anche se le campagne dei secondi per liberare valore da aziende sottoperformanti spesso si concludono con un successo, i primi giudicano comunque tali azioni attraverso il prisma di chi, costretto dalla propria gestione di fondi passivi a rimanere nell’azionariato, subisce le fiammate di volatilità che esse generano e il conseguente temporaneo spodestamento dal ruolo di leader nel dialogo con la dirigenza.

La settimana appena trascorsa ha visto un ulteriore acuirsi della crisi a seguito dell’incursione di Bluebell Capital Partners addirittura nel capitale del più dotato degli asset managers, ossia BlackRock. L’azione – per il Financial Times un tentativo di ‘affiggere un bersaglio sulla schiena di Larry Fink’ – prende di mira, da un lato, l’asserita ambiguità del gestore nel mettere in atto le sue politiche ESG, dall’altro, la sua responsabilità nell’aver eccessivamente politicizzato il dibattito domestico sulla sostenibilità con conseguente deflusso di fondi ad opera delle piattaforme pensionistiche degli Stati non allineati su questo tema.

Si tratta del primo caso eclatante in cui dalla base azionaria degli asset managers quotati a Wall Street vengono manifestate preoccupazioni sulle ricadute in termini di raccolta – uno degli indicatori di performance più rilevanti – prodotte dall’enfasi posta sul fattore ESG in sede di elaborazione delle decisioni di investimento. In altre parole, la scorribanda di Bluebell potrà anche essere respinta ma comunque costringerà BlackRock, da un lato, a compiere il consueto esercizio ‘dietrologico’ su chi si celi dietro la stessa, dall’altro, a porre il tema del rapporto tra ESG e raccolta al centro della riflessione strategica per evitare che una ferita curabile in breve tempo generi infezione.

Più in generale, l’intervento di Bluebell giunge al culmine di un periodo in cui l’ambiguità del rapporto tra istanze politiche ed ESG è sembrata più incline all’esasperazione che al chiarimento. Oltre a un contributo dell’editorial board del conservatore Wall Street Journal in cui si critica, non senza una punta di sarcasmo, la scelta dell’Amministrazione Biden di imporre criteri green ai contractors già affannosamente impegnati a fornire sistemi d’arma alla Difesa in vista soprattutto del sostegno all’Ucraina, è da segnalare la decisione di Vanguard – uno degli altri big del risparmio gestito con circa $ 8.100 mld in gestione (fonte: Forbes) – di non partecipare più ai lavori dell’iniziativa denominata Net Zero Asset Managers, con la quale il mondo dell’asset management globale intende coordinare le proprie azioni sul versante climatico soprattutto nel rapporto con le società quotate. Secondo la lettura prevalente, la scelta della società fondata da John ‘Jack’ Bogle è da ricondursi proprio al disagio espresso ultimamente dagli Stati conservatori in materia di sostenibilità.

A proposito di questi ultimi, è chiaro l’intento del riconfermato governatore italo-americano della Florida Ron DeSantis di porsi alla testa del movimento post-trumpiano – nel senso del superamento della leadership di Donald Trump, non già delle istanze di cui l’ex Presidente si è fatto portatore – che mira a riconquistare la Casa Bianca nel 2024. Punto cardine del manifesto di DeSantis è l’offensiva contro Woke Inc., ossia l’asserito incunearsi di tematiche liberal nell’universo economico-finanziario: da qui la decisione del Tesoro di Tallahassee, città capitale della Florida, di disinvestire circa $ 2 mld dai conti accesi con BlackRock.

Nel contempo, al di qua dell’Atlantico si assiste ad un’opposta offensiva ‘filo-woke’ da parte soprattutto degli asset owners scandinavi ed olandesi tradizionalmente fautori di un approccio ancora più rigoroso al tema ESG e alle sue implicazioni sul piano delle decisioni di investimento. Così, mentre nelle ultime settimane le convulsioni all’interno dell’asset management americano aumentavano di intensità, Nicolai Tangen, amministratore delegato di Norges Bank Investment Management – ossia il veicolo che per conto della Banca Centrale norvegese gestisce i $ 1.200 mld del Government Pension Fund Global – annunciava un giro di vite nei confronti delle società che omettono di elaborare un piano per l’azzeramento delle emissioni, che corrispondono emolumenti eccessivi al top management o che non hanno un board con adeguata rappresentanza femminile.

Di tale divaricazione, destinata probabilmente ad accrescersi, dovrà necessariamente tener conto di qui in avanti chiunque si trovi alle prese con la gestione della propria capital structure, nella consapevolezza che sono principalmente le dinamiche geopolitiche e gli spasmi interni alle grandi potenze che ne costituiscono la causa.

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