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“Il ministero degli Esteri saudita può tentare di sviare, ma i fatti sono semplici”, scrive il Consiglio di Sicurezza nazionale statunitense a proposito della spiegazione messa nero su bianco da Riad sul perché in sede Opec+ è stato scelto — mercoledì 5 ottobre — di tagliare di due milioni di barili le produzioni giornaliere di petrolio.

La contrazione potrebbe partire da novembre perché a questo punto i sauditi si trovano quasi costretti ad accettare le richieste dell’amministrazione Biden, che vorrebbe almeno evitare che la decisione ricada direttamente sul mese in corso e dunque faccia sentire i suoi effetti a inizio novembre. Ossia quando gli elettori statunitensi si recheranno a votare per le elezioni di metà mandato — e chi vota potrebbe ritenere in qualche modo responsabili i democratici al governo di non essere riusciti a convincere gli alleati (per ora) sauditi a non innescare la spirale di mercato che dovrebbe portare al rialzo dei prezzi alla pompa conseguenti al taglio delle produzioni.

“Il mondo si sta radunando dietro l’Ucraina per combattere l’aggressione russa. Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo chiave nell’assemblare questa coalizione e hanno coinvolto la leadership saudita in questo sforzo. Nelle ultime settimane, i sauditi ci hanno comunicato, privatamente e pubblicamente, la loro intenzione di ridurre la produzione di petrolio, sapendo che avrebbero aumentato le entrate russe e smorzato l’efficacia delle sanzioni. Questa è la direzione sbagliata”, dice la nota del Consiglio, firmata dal responsabile delle Comunicazioni strategiche, l’ammiraglio John Kirby.

È una posizione pesante dall’organo amministrativo più vicino alla Casa Bianca (anche fisicamente, visto che si trova all’Eisenhower Executive Office Building, appena davanti alla residenza presidenziale, con i suoi membri che sono costantemente nella West Wing).

La dichiarazione di Kirby è programmatica: il presidente Joe Biden, durante un’intervista a Jake Tapper della CNN ha annunciato che non appena il nuovo Congresso si metterà al lavoro (dopo le Midterm) gli Stati Uniti prenderanno misure severe. E Biden parla sapendo che a Capitol Hill sulla reazione (dura) c’è un sostanziale consenso bipartisan.

Kirby nella irrituale dichiarazione di rancore scritta statunitense spiega anche perché: “Abbiamo presentato all’Arabia Saudita un’analisi che dimostrava che non c’era alcuna base di mercato per tagliare gli obiettivi di produzione e che potevano tranquillamente aspettare la prossima riunione dell’Opec per vedere come si evolveva la situazione. Altri Paesi dell’Opec ci hanno comunicato in privato che anche loro non erano d’accordo con la decisione dell’Arabia Saudita, ma si sentivano costretti a sostenere la direzione di quest’ultima”.

Ci sono state informazioni inviate al Wall Street Journal a proposito di posizioni non troppo allineate di Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Iraq. Ora l’amministrazione statunitense corrobora quei rumors apertamente. A questo punto chi può crea distinguo, perché il rischio è di finire sotto quella che potrebbe essere la furia vendicativa americana. Il presidente Biden ha già fatto sapere che “stiamo rivalutando le nostre relazioni con l’Arabia Saudita alla luce di queste azioni”.

Kirby per stemperare aggiunge che “continueremo a cercare segnali sulla loro posizione nella lotta all’aggressione russa”. Anche Riad si difende, ha cercato con il documento del ministero degli Esteri attaccato da Washington di spiegare che non ci sono state motivazioni politiche e che le ricostruzioni su un suo allineamento con Mosca dietro alla decisione dell’Opec sono false. Basterà?

Il problema è che gli Stati Uniti adesso temono che la decisone del G7 di imporre un price cap al petrolio (che potrebbe essere allargata in sede europea) diventi inefficace davanti al riaumento dei prezzi. La mossa dall’Opec+ ha già aumentato la volatilità dei mercati e un tetto al prezzo del petrolio russo potrebbe innescare un’impennata del greggio. I funzionari statunitensi hanno inoltre espresso il timore che il presidente russo, Vladimir Putin, possa reagire riducendo le forniture, facendo cosi salire ulteriormente i prezzi.

Putin ha già segnalato che il Cremlino non venderà petrolio ai Paesi che partecipano all’iniziativa del tetto dei prezzi. La decisione raggiunta in sede G7 e allargata all’Ue mira a limitare – ma senza eliminare – le esportazioni di greggio, riducendo le risorse economiche con cui la Russia finanzia la sua guerra senza causare un aumento dei prezzi globali. Uno dei grossi problemi è che se non vi aderiscono i grandi acquirenti russi come Cina, India e Turchia rischia di diventare inefficace.

Ma adesso, col rialzo dei prezzi deciso dall’Opec, i problemi si complicano. Washington vorrebbe che sia fissato il cap del prezzo una mesata prima dell’embargo europeo che impedisce agli operatori dell’Ue di assicurare e finanziare la vendita di petrolio russo da dicembre. I tempi si stringono, ma tra un mese il valore del greggio potrebbe rialzarsi rendendo la misura poco funzionale. La Russia vende il petrolio con un valore legato all’indice Urals, che per il 2023 prevede di fluttuare attorno ai 70 dollari.

Secondo S&P Global Commodity Insights, visto che il cap deve essere posto tra il costo marginale di produzione del greggio russo ed entro i prezzi pre-pandemia, un valore potrebbe essere tra i 48 e i 55 dollari. Ma adesso il rischio è che il taglio dell’Opec rialzi il prezzo anche dell’Urals imponendo conseguentemente un marginale maggiore e un livello più alto al price cap. Spostarlo di una dozzina di dollari lo porterebbe esattamente attorno alle stime Urals e dunque sarebbe sostanzialmente inefficace. Per Washington, Riad ha contribuito all’innesco di questo problema che potrebbe affossare l’iniziativa sanzionatoria concordata dai sistemi multilaterali occidentali. Non è poco (oltre al peso della mossa sulle Midterm).

La lite tra Usa e Arabia Saudita diventa pubblica

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