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Dalla guerra di movimento a quella di trincea, sul fronte del lavoro. Teatro in cui l’Italia, nel decennio che è alle nostre spalle, non ha mai brillato. Se si cerca un’immagine plastica per descrivere la situazione italiana, questa sembra essere quella più evocativa. Dietro, ma soprattutto dentro, gli ultimi dati Istat, si intravede, infatti, il grande cambiamento che ha colpito indubbiamente tutti i Paesi europei. Ma che, nel caso italiano, lascia prefigurare una cesura profonda con il tran tran degli ultimi anni.

E sono i dati sull’occupazione a rendere evidente un cambiamento che, tuttavia, va bene interpretato, per evitare facili illusioni. “A ottobre 2022 – si legge nell’ultimo comunicato Istat – prosegue la crescita dell’occupazione registrata a settembre, per effetto dell’aumento dei dipendenti permanenti. Rispetto a ottobre 2021, l’incremento è pari a quasi 500mila occupati ed è determinato dall’aumento dei dipendenti che ammontano a circa 18 milioni 250mila. Rispetto al mese precedente, a ottobre 2022, il tasso di occupazione sale al 60,5% (valore record dal 1977, primo anno della sere storica), quelli di disoccupazione e inattività scendono al 7,8% e al 34,3% rispettivamente”.

Una sorta di piccolo miracolo, se si considera che nel decennio 2011-2020 il tasso di attività in Italia, (che comprende anche i disoccupati), era stato il più basso di tutta l’Unione europea. Con un valore medio, nel decennio, secondo i dati della Commissione europea (Tab3.19 Alert mechanism report 2022), pari al 64,26 per cento del totale della popolazione compresa tra i 15 ed i 64 anni di età. Quasi 7 punti in meno rispetto alla Francia e 14 alla Germania. Dati che dovrebbero far riflettere Giuseppe Conte, ormai completamente assorbito dalla difesa del Reddito di cittadinanza: incentivo potente per allargare la zona grigia del lavoro nero.

Sempre dai dati Istat emerge un altro elemento consolante, anche se solo in apparenza. Sono soprattutto i lavoratori a tempo indeterminato ad aumentare, in un solo mese, di 82 mila unità (+0,4 per cento); diminuiscono invece i dipendenti a termine e gli autonomi. Dall’inizio dell’anno gli occupati sono aumentati di 320 mila unità. I contratti a tempo indeterminato di 366 mila unità, mentre quelli a tempo determinato sono diminuiti di 46 mila.

Come interpretare un simile andamento? Con l’immagine dalla quale si è partiti. Dal 2013 la precarietà dei rapporti da lavoro era progressivamente aumentata. Il numero dei contratti a termine era passato dal 14,8 per cento, rispetto a quelli indeterminati, al 20,8 per cento del 2018. Quindi una rapida discesa fino a maggio 2018. Per riprendere quota successivamente. Il tutto avveniva all’interno di un ciclo economico di più lungo periodo: che aveva avuto inizio nel 2012. E forse terminerà nel 2023. Diciamo forse perché il dato di quell’anno è ovviamente frutto di una previsione, per quanto autorevole.

Combinando i dati Eurostat e quelli della Commissione europea (Autumn forecast) si può osservare l’andamento delle partite correnti della bilancia dei pagamenti in tutto il periodo considerato. Nel 2012 il loro deficit era stato pari allo 0,2 per cento. Valore che si ritrova anche nella previsione 2023. Nel mezzo, vale a dire, negli undici anni che intercorrono tra queste due date, l’Italia aveva fatto registrare un miglioramento costante della sua performance. Con una continua crescita del surplus delle partite correnti, che aveva raggiunto il suo massimo (3,9 per cento del Pil, nel 2020), per poi declinare: prima lentamente poi sempre più velocemente. Segno evidente di un Paese che aveva ritrovato una sua capacità competitiva, evidenziato sia dall’attivo della bilancia commerciale che di quella dei pagamenti.

Si era trattato di un periodo eccezionale in cui i successi dell’economia italiana, pur in un complicato chiaro-scuro, erano stati innegabili. Negli anni passati, ancor prima la nascita della moneta unica, i debiti nei confronti dell’estero erano progressivamente cresciuti, fino a raggiungere, nel primo trimestre del 2014, il 25,2 per cento del Pil. A partire da quella data, invece, con una lunga e faticosa risalita, già nel terzo trimestre del 2020, era stato rimborsato ogni debito. Per poi trasformare l’Italia in un Paese creditore nei confronti dell’estero. Crediti che, nel quarto semestre del 2020 avevano raggiunto una percentuale pari al 7,4 per cento del Pil. Per un valore pari a oltre 145 miliardi di euro. Evidente paradosso per una Nazione che aveva, nel contempo, il terzo debito pubblico più alto del mondo. Poi una leggera retromarcia.

Alla base di quegli eventi, forse, irripetibili, era stata una particolare congiuntura, caratterizzata dalla forte riduzione dei prezzi dell’energia. Che avevano compresso il valore delle importazioni. Quelli del petrolio erano scesi da oltre 100 dollari al barile degli inizi del 2012 ai minimi dei 28 dollari del gennaio 2016. E, dopo una lenta risalita (85 dollari nell’ottobre 2018), addirittura ai 20 dollari, nell’aprile 2020. Prima del grande balzo a quota 130 dollari del marzo di quest’anno. Per il gas era andata molto meglio nei primi anni, con un costo di 20 euro per megawattora. Molto peggio a partire dalla data dell’invasione dell’Ucraina. Con cifre da capogiro fino ad oltre 330 euro al megawattora (ott.22).

Il passaggio verso il caro energia non poteva non mettere in crisi il modello che si era consolidato negli anni precedenti. Ed in effetti già nei primi tre trimestri dell’anno il surplus commerciale, accumulato nel 2021, pari a oltre 35 miliardi di euro, si è trasformato nel suo opposto: un deficit di quasi 25 miliardi. Con una differenza algebrica, destinata a pesare sull’intera economia nazionale, per 60 miliardi di euro. Che rappresenta, in larga misura, il trasferimento di risorse a favore dei Paesi esportatori di prodotti energetici. Trasferimento inevitabilmente destinato a comprimere il tasso di crescita dell’economia Italia. Un bis di quanto era già avvenuto negli anni ‘70 a seguito del forte aumento dei prezzi del petrolio, conseguenti la guerra del Kippur.

Sarà un fatto temporaneo? Difficile rispondere, sotto quel diluvio di bombe e missili che stanno distruggendo l’Ucraina. All’accresciuta incertezza, le imprese italiane hanno, seppur confusamente, cercato di reagire. Negli anni passati, in vista dei progressivi miglioramenti del clima congiunturale, avevano aumentato la loro base occupazionale, pescando soprattutto nel grande mondo del precariato. Giovani che andavano selezionati. Soprattutto formati. Ma oggi non è più questo il clima. In vista di una possibile crisi è meglio serrare i ranghi. Tenersi strette quelle maestranze la cui affidabilità e professionalità è stata sperimentata. Offrendo loro la fidelizzazione di un contratto a tempo indeterminato. Ma per il resto aspettare di vedere che tempo sarà.

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