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È bastato essere in carica da due mesi al governo Meloni per dare evidenza del proprio profilo ideologico. Le iniziative politiche e comunicative intraprese in così breve lasso di tempo ne marcano la cifra, quali che siano i prossimi riaggiustamenti giuridici, ricalcoli di bilancio e compromessi interni alla coalizione. Il riferimento qui è alle posizioni assunte riguardo a questioni tanto diverse come: la norma “anti-rave”, le ulteriori restrizioni per l’ergastolo ostativo, la stretta posta alle Ong, considerate pull factor per scafisti e migranti, la riammissione anticipata dei medici novax, il condono delle multe ai novax, l’innalzamento del tetto all’uso del contante, la flat tax, la cancellazione fino a una certa cifra delle cartelle esattoriali.

Si obietterà che ben più rilevanti sono le posizioni assunte sul piano geopolitico. In effetti, considerati rispetto alla potenziale portata delle conseguenze, più rilevanti lo sono – tanto da indurre il governo alla rapida rinuncia alla piena sovranità nazionale nel rapporto con l’Egitto (l’Egitto dell’omicidio Regeni, del caso Zaki e dei diritti umani negati). E tuttavia lo sono meno sul piano ideologico, come risulta dall’adozione di una duplice strategia da parte del Presidente Meloni.

Verso l’esterno essa si basa sull’adattamento, ai vincoli posti dalla collocazione euroatlantica e ai condizionamenti di un’economia globalizzata. Verso l’interno, sul fatto di porre vincoli, limiti, ostacoli o condizioni all’esercizio o alla domanda di diritti e riconoscimenti aventi una valenza culturale cosmopolitica o tali da consentire opportunità esistenziali globalizzate. È un dualismo che fa prevedere, con le parole di Francesco Merlo, che “più Giorgia Meloni sarà piegata al realismo dalla Ue, più, tornando a casa, infiammerà i propri quadri mentali”. (“la Repubblica”, 10 novembre 2022).

Il fatto è che a segnare il profilo ideologico di un soggetto politico, esente come l’Italia da mire di supremazia geopolitica, sono soprattutto gli orientamenti e le scelte operate sul piano interno, siano esse o meno ispirate e proiettate su quello internazionale dei sodali ideologici.

Orientamenti e scelte quali quelle prima richiamate indicano come, col passaggio dall’opposizione al governo si operi la trasformazione di un vittimismo aggressivo in uno pseudo-liberalismo repressivo. Più di tutto a rivelarlo è il contrasto tra le scelte operate e la loro copertura etico-politica. Due generi di scelte: da un lato scelte come la norma anti-rave e lo stop alle navi delle Ong; dall’altro scelte come il tetto al contante e i condoni fiscali.  E quale copertura etico-politica il ripetuto declamato riferimento alla libertà. Esempi maggiori nell’intervento della neopresidente Meloni alla Camera nel giorno della fiducia (dove libertà è seconda solo a nazione), il suo videomessaggio per il Giorno della Libertà e il suo intervento alla sessione Global Health del G20 di Bali.

Ma di quale libertà si tratta? Per come è invocata parrebbe trattarsi – valida la distinzione classica di Isaiah Berlin e di Robert Dahl – della “libertà negativa”, propria del pensiero liberale (distinta dalla “libertà positiva”, vale a dire come autodeterminazione). Secondo la concezione della libertà negativa (detta anche “libertà da”) si è liberi nella misura in cui non si è ostacolati. E qui spicca una doppia alterazione dell’accezione liberale. L’una consiste nel trattare come ostacoli leggi e procedure che, come in campo tributario, favoriscono il rispetto e il controllo della legalità; l’altra nel giustificare scelte repressive, vale a dire limitative della libertà, in quanto ritenute minacce alla sicurezza (ma si preferisce dire all’ordine) -, come nei casi dei rave e dei migranti.

Finora si è registrata una sorta di divisione del lavoro tra Salvini e Meloni: il primo votato a esaltare la libertà come licenza e come sicurezza, la seconda intesa a dare copertura etico-politica all’azione di governo. Finora. È prevedibile cioè che presto il gioco delle parti muterà fino a diventare confuso e conflittuale, sia facendosi più presente Meloni sul primo fronte, sia intervenendo entrambi su questioni controverse attinenti ai diritti civili.

È un errore ritenere che le contese culturali, suscitate dal governo Meloni su questo secondo piano strategico, siano distrattive e compensative tanto dell’incapacità di dare risposte ai problemi più gravi, quanto della subordinazione di fatto alle direttive europee. Benché sia certo – per dirla con le parole di un osservatore acuto della vita politica come Rino Formica – che “Il nuovo governo non è interessato ai temi della grande economia, ma solo a quelli della micro-economia” (Il Corriere della Sera, 19 ottobre 2022).

Parimenti, limitativo è riferire il modo di porre e affrontare le contese culturali al solo retroterra fascista. La posta in gioco è in gran parte diversa: imprimere una marcia indietro alle conquiste della modernità, in primis ai diritti civili (aborto, omotransfobia, ius scholae, fine vita, parità salariale, congedi parentali, ecc.), quale base per indebolire diritti politici diritti sociali e dunque istituzioni della democrazia. Si tratta, insomma, di una duplice incomprensione: 1) considerare le azioni “identitarie” come un diversivo per distrarre dalla inadeguatezza a risolvere i problemi economici e sociali più gravi e urgenti; 2) minimizzare la portata culturale delle iniziative interpretandole come rigurgiti fascisti e non come espressioni di un’ideologia antimoderna.

La libertà sovranista declinata dal governo Meloni. Scrive Ceri

Finora si è registrata una sorta di divisione del lavoro tra Salvini e Meloni: il primo votato a esaltare la libertà come licenza e come sicurezza, la seconda intesa a dare copertura etico-politica all’azione di governo. Ma il gioco delle parti presto muterà fino a diventare confuso e conflittuale. L’analisi di Paolo Ceri, già ordinario di Sociologia all’Università di Firenze

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