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L’Arabia Saudita sarà il prossimo Paese ad ospitare il Summit della Lega Araba, un ruolo che svolgerà “sulla base della volontà del Regno di assicurare la sostenibilità della cooperazione esistente”, come ha detto il ministro degli Esteri Faisal bin Farhan. “Diamo il benvenuto ai leader nel loro secondo Paese”, ha aggiunto.

L’ultimo incontro, in Algeria, si è concentrato su diversi temi di impatto regionale, ma su tutti la stabilità regionale, il cambiamento climatico e il contenimento dell’Iran – anche in un ottica in cui non ci sarà un accordo sul nucleare con Teheran. Tre grandi argomenti su cui Riad ha ruolo centrale e molto da offrire ai partner regionali e internazionali.

Soprattutto adesso, che il leader de facto Mohammed bin Salman – erede al trono già alla guida del Paese – sta costruendo una posizione più centrale, sovrana e proattiva per il regno. In sostanza, si sta preparando per una rinnovata politica economica globale e per movimentate dinamiche geopolitiche, nel tentativo di portare l’Arabia Saudita – il più grande esportatore di petrolio al mondo e il custode dei luoghi sacri dell’Islam – in una posizione di primo piano.

“MBS (acronimo internazionale di Mohammed bin Salman, ndr) non vede il suo Paese come un attore di secondo piano in un sistema internazionale biforcato simile a quello che esisteva durante la Guerra Fredda; vede l’ordine geopolitico emergente come malleabile, composto da un insieme di parti interconnesse, e ritiene che Riad abbia il diritto di lavorare con una costellazione mutevole di partner per muovere i mercati e plasmare i risultati politici”, ha scritto in un eccellente saggio uscito su Foreign Affairs la professoressa Karen Young della Columbia University.

“Questa visione è un sogno degli anni Settanta del Movimento dei Non Allineati, con la differenza che l’elemento unificante è l’opportunismo nazionalista piuttosto che il risveglio postcoloniale”, spiega Young. Ossia, in un momento in cui la pandemia ha offerto l’opportunità di un reset, e la guerra russa in Ucraina mostra i rischi di questa fase storica attuale (ma anche gli spazi potenzialmente occupabili), bin Salman sta proteggendo i suoi interessi e sta valutando nuove vie di sviluppo.

I risultati per il momento gli danno ragione. Frutto di una fluttuazione del mercato petrolifero che Riad intende controllare – per sfruttare al massimo l’aumento di richiesta legato agli scombussolamenti del mondo energetico connessi alla guerra ucraina, ma anche pensando al futuro – l’economia dell’Arabia Saudita dovrebbe crescere dell’8,3% nel 2022, prima di moderare al 3,7% e al 2,3% rispettivamente nel 2023 e nel 2024, secondo l’ultimo rapporto pubblicato dalla Banca Mondiale. 

“I forti utili e il flusso di cassa record del terzo trimestre di Aramco rafforzano la nostra comprovata capacità di generare un valore significativo attraverso la nostra produzione a monte a basso costo e a minore intensità di carbonio e le nostre attività a monte e a valle strategicamente integrate”, ha dichiarato l’amministratore delegato della petrolifera di stato saudita, Amin Nasser. Saudi Aramco ha battuto le previsioni quando nei giorni scorsi ha presentato i dati del terzo trimestre con un aumento del 39% dell’utile netto (salito a 42,4 miliardi di dollari nei tre mesi fino al 30 settembre, rispetto ai 30,4 miliardi di dollari dell’anno scorso).

Aramco è il motore delle capacità economiche saudite, e bin Salman si è dimostrato deciso nel proteggerlo quando ha mosso una scelta sul taglio delle produzioni petrolifere che ha fatto infuriare Washington – che l’ha considerata un favore alla Russia e uno sgarbo personale. Ma la posizione americana non tiene conto di un aspetto determinante: l’Arabia Saudita percepisce che il mondo non è più dominato dagli Stati Uniti, e per questo vuole i propri spazi di manovra. E inoltre: per Riad, la reazione occidentale contro la Russia (le sanzioni, il price cap) è vista come un potenziale problema per le proprie produzioni.

D’altronde gli Usa non sono più dipendenti dal petrolio saudita (e del Golfo), e questo ha prodotto parte delle ragioni che hanno portato al disingaggio dalla regione, mentre Riad ha consapevolezza che l’insicurezza energetica dimostrata dalla guerra russa ha rivitalizzato gli idrocarburi per qualche anno e l’attuale fluidità delle questioni internazionali porta Paesi come l’Arabia Saudita ad avere una nuova centralità.

Consapevole delle scadenze imposte dalla transizione energetica, che è stata soltanto parzialmente rallentata, e delle proprio capacità di leggere le evoluzioni in corso, Bin Salman ritiene che l’Arabia Saudita sia uno dei principali (se non il principale) mercato emergente. E questo significa che Riad si pone come riferimento di un mondo che negli ultimi dieci anni ha contribuito a circa il 70% del Pil globale e che si attesterà per i prossimi dieci su percentuali di crescita più alte rispetto alle medie delle economie sviluppate.

“Il Paese e gli altri Stati del Golfo si vedono ora come modelli di crescita e sviluppo”, scrive Young nel suo saggio, e “avvertono la necessità di riorientare le proprie alleanze per prepararsi a un ordine globale meno stabile, forse addirittura a un’era post-americana”.

MBS ha già affrontato un rapporto complicato con gli Stati Uniti ai tempi dell’amministrazione Obama, quando la sua leadership era in movimentata costruzione, dimostrandosi poi in grado di ricostruire i collegamenti (basati soprattutto sul business e su intese personali come quella col genero-in-chief Jared Kushner) con la successiva amministrazione Trump, per arrivare infine adesso ad avere una relazione più complicata con Joe Biden. Il tema della sicurezza è sempre stato centrale nelle relazioni, ma questa partnership è stata da tempo ricalibrata.

Riad ha compreso che gli Stati Uniti (e non da oggi) hanno perso buona parte delle volontà – e della necessità strategica – di utilizzare le proprie forze per proteggere gli Stati del Golfo. Differentemente la questione della vendita di armi americane è meno complessa: i Paesi del Golfo come l’Arabia Sauditi sono grandi acquirenti di un’industria, quella bellica statunitense, che muove milioni di indotto. Il Congresso potrebbe prendere posizioni di carattere ideologico contro Riad (frutto delle questioni riguardanti i diritti umani, e soprattutto della vicenda all’Opec+), ma Washington può realmente permettersi di perdere per sempre un cliente del genere, col rischio che questo scelga per rifornirsi alternative come quelle russe o soprattutto cinesi?

È in corso un gioco di equilibri. Le notizie fatte arrivare ai giornali sulla condivisione di intelligence riguardo l’Iran alle corde cerca un colpo basso contro Washington e Riad o dei suoi proxy contro il regno e contro gli interessi americani nella regione, serve ad accumunare i destini dei due Paesi. E anche a dimostrare che Riad è comunque un partner utile e affidabile per Washington – tale da dare informazioni in anticipo su un potenziale attacco e permettere l’attività di deterrenza che, secondo il Wall Street Journal che aveva dato per primo la notizia, ha fatto rientrare la minaccia e l’allarme nel giro di due giorni.

Contestualmente al quadro con la politica americana, bin Salman sa che continua ad avere ottimi ganci con il mondo dell’economia statunitense, in particolare con il settore tecnologico. Apple fonderà un centro di distribuzione regionale nella nuova zona economica speciale saudita a Riad, e sarà un precedente importante. La Kingdom Holding Company (KHC) saudita, insieme al private office del principe Alwaleed bin Talal, continueranno a possedere azioni di Twitter per un valore di 1,89 miliardi di dollari dopo l’acquisizione della società di social media da parte del tech-profeta Elon Musk, diventando così i secondi investitori nel social network. Ibm e Saudi Data, un’agenzia con sede nel regno, hanno firmato la scorsa settimana un accordo strategico per aggiungere l’intelligenza artificiale nei settori della carbon capture.

Per MBS queste attività si uniscono nella mossa a protezione degli interessi petroliferi e fanno parte della narrazione a uso interno. Va infatti valutato che le decisioni della leadership saudita non sono solo connesse a movimenti internazionali, ma hanno anche una matrice legata al consenso. L’ascesa al potere di Bin Salman non è stata facile, travagliata da dinamiche interne anche ruvide. Il principe ereditario, che adesso ha dalla sua ampio consenso interno, vuole dimostrarsi in grado di prendere decisioni a tutela della sovranità saudita (e dei desideri di sviluppo del Paese).

Inoltre, Riad segnala agli investitori il proprio impegno nel mantenere il petrolio redditizio o almeno a creare una base per stabilizzare i prezzi, incoraggiando a credere ancora nel settore petrolifero – sfruttando anche un trend nato dagli stati repubblicani degli Usa, i cui fondi stanno chiedendo ai gestori di alleggerire l’impegno sugli ESG. Il governo saudita teme la volatilità dei prezzi, perché – sebbene la richiesta di petrolio a livello mondiale è attualmente alta – è preoccupato che la domanda possa diminuire drasticamente se l’economia globale dovesse sprofondare in una recessione più diffusa. Abbinare queste preoccupazioni a dinamiche di mercato globali aiuta il regno nel costruirsi il proprio standing internazionale.

In questa situazione, Riad e Washington si scontrano perché, come spiega Young, vedono davanti a sé due forme di economie globali differenti. Una vede un ruolo più forte dei mercato emergenti nella politica e nel commercio internazionale. L’altro vede gli Stati che si rivolgono verso l’interno e si concentrano sull’indipendenza energetica individuale, enfatizzando l’impegno basato sui valori quando interagiscono con il sistema internazionale. Questa è la sfida per MBS: gestire le competizioni con gli Stati Uniti, rimanendone partner.

Così MBS sta costruendo il suo nuovo regno

Per Mohammed bin Salman il contesto degli affari globali è un trampolino di lancio della sua visione del mondo. A Riad c’è consapevolezza sulle potenzialità (legate anche alle grandi entrate che il petrolio assicurerà nel breve-medio termine), e da queste il principe ereditario sta cercando di forgiare lo standing del suo regno – che considera prima tra le potenze emergenti

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