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Nella Chiesa cattolica, i nomi non si scelgono a caso. Sono simboli, segni, direzioni. E quando un Papa ne adotta uno, racconta già qualcosa del cammino che intende percorrere. Così, quando Robert Francis Prevost – statunitense di nascita, agostiniano di formazione – ha scelto di chiamarsi Leone XIV, la sua decisione ha immediatamente acceso interpretazioni. Non è una semplice eredità onomastica, ma una dichiarazione di intenti: un ponte tra passato e futuro, tra memoria e progetto.
A evocare immediatamente attenzione è la figura di Leone Magno, il Papa del V secolo che, secondo la tradizione, affrontò Attila il Flagello di Dio senza armi né eserciti, ma con la sola forza spirituale della croce.
Fermò l’avanzata dell’invasore con la sua sola autorità morale. Fu un gesto che segnò un’epoca e consegnò al papato un ruolo nuovo: baluardo della civiltà, scudo spirituale contro il caos. In un tempo in cui le città crollavano e le certezze si sgretolavano, egli affermò che la fede poteva essere ancora fondamento, ancora rifugio.
Oggi, i “barbari” non arrivano più a cavallo. Parlano il linguaggio degli algoritmi, dei capitali sovrani, della propaganda digitale. Non devastano con le spade, ma con la disinformazione, la manipolazione, l’avidità.
Di fronte a queste nuove minacce, la scelta del nome Leone suona come un invito a riscoprire la forza morale, a erigere nuove difese, non materiali ma spirituali.
Ma Leone XIV non guarda solo al passato più remoto. Il richiamo più potente, forse, è a Leone XIII, il Papa dell’era industriale, padre del pensiero sociale cattolico.
Con l’enciclica Rerum Novarum, pubblicata nel 1891, rivoluzionò la visione del lavoro, definendolo non semplice mezzo di sostentamento, ma luogo della dignità umana. Denunciò le ingiustizie del capitalismo selvaggio e diede impulso a un cristianesimo incarnato: nacquero le cooperative, i sindacati cristiani, le casse rurali. Non ideologie, ma infrastrutture morali.
Non utopie, ma strumenti concreti per restituire al povero il ruolo di soggetto della storia.
È da quell’eredità doppia – la fermezza morale di Leone Magno e la giustizia sociale di Leone XIII – che il nuovo Papa sembra voler partire. In un’epoca segnata da nuove forme di autoritarismo – tanto plateale quanto subdolo – e da democrazie stanche sedotte dal consumismo, servono voci capaci di risvegliare le coscienze.
La fede, oggi, non può essere rifugio, ma presidio. Non fuga, ma presa di posizione.
Il Papa ha già lasciato intendere che non sarà un pontificato della semplice amministrazione.
Lo slancio spirituale si coniuga, nella sua visione, con un’urgenza di riforma del presente: serve una Chiesa che non si rinchiuda nel ritualismo, ma che sappia interpretare il tempo con occhi nuovi. Che custodisca il Creato non solo come risorsa da preservare, ma come spazio spirituale da abitare, da rispettare, da trasmettere.
Il nome “Leone” porta in sé una promessa e una sfida. Promessa di coraggio, sfida di responsabilità. Non richiama una battaglia di conquista, ma una battaglia di senso.
È un nome che suggerisce che la fede può ancora dire qualcosa al mondo, senza urlare, ma con fermezza. Che la speranza è possibile, ma ha bisogno di guide sobrie, lucide, capaci di indicare il pericolo senza cedere al panico, e la via d’uscita senza cedere all’orgoglio.
In un tempo che sembra aver perso il suo centro, Leone XIV potrebbe rappresentare un nuovo inizio. Un Papa che, scegliendo un nome così denso, ci ricorda che il passato non è un peso, ma una radice. E che dalla radice può ancora nascere un futuro.

Il papa che ci ricorda il senso delle radici. L'opinione di Bonanni

In un tempo che sembra aver perso il suo centro, Leone XIV potrebbe rappresentare un nuovo inizio. Un Papa che, scegliendo un nome così denso, ci ricorda che il passato non è un peso, ma una radice. E che dalla radice può ancora nascere un futuro. Scrive Raffaele Bonanni

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