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La ricerca di sostegno estero per la propria causa “indipendentista” non porterà Taiwan da nessuna parte. Così nei giorni scorsi, Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri della Cina, ha risposto in conferenza stampa a una richiesta di commento sui Monterey Talks, i colloqui annuali sulla difesa tra l’amministrazione statunitense e il governo taiwanese. “Chi si pone alla mercé altrui finirà solo per essere scartato, come pezzi degli scacchi usati”, ha affermato il portavoce.

Pechino ha ribadito ancora una volta la sua posizione, irrigiditasi negli ultimi mesi in vista delle congresso del Partito comunista cinese che dovrebbe rinnovare l’incarico al leader Xi Jinping: Taiwan è una questione interna. “La Cina fa i massimi sforzi per la riunificazione in modo pacifico. In caso di secessione, la Cina si riserva altre opzioni”. Queste parole pronunciate nelle scorse settimane da Wei Fenghe, consigliere di Stato e ministro della Difesa della Repubblica popolare cinese, suggeriscono che l’obiettivo cinese non è lo status quo tanto difeso a parole ma la “riunificazione” (che però tale non può essere definita, visto che Taiwan non è mai stata parte della Repubblica popolare cinese). Il calendario preoccupare: nel 2027 cadrà il centenario dell’Esercito popolare di liberazione cinese e potrebbe essere l’ultimo anno del previsto terzo mandato quinquennale di Xi.

In questo quadro, come raccontato su Formiche.net, l’amministrazione Biden sta cercando di spingere Taiwan a imparare la lezione ucraina, rafforzare la sua strategia di difesa cosiddetta del “porcospino” e comprare armi e mezzi in grado di proteggere l’isola dalla Cina (droni, missili anticarro Stinger e antiaerei Javelin) respingendo alcune richieste di mezzi pesanti ritenuti dagli americani utili solo in tempo di pace. L’obiettivo di Washington è garantire a Taipei una certa autonomia strategica per renderla in grado di reagire da sola a un attacco cinese senza la necessità di un intervento statunitense: trasformare un’eventuale invasione anfibia (asset su cui Pechino sta rafforzando le truppe) in una disfatta come successo a Kiev per certi versi.

È il momento di massimo rischio in termini di una potenziale guerra su Taiwan. Tanto che Stati Uniti e Cina nelle ultime settimane hanno rilanciato l’importanza di mantenere aperti i canali di comunicazione. Infatti, “nel breve e medio termine è molto più probabile che un conflitto a Taiwan si verifichi per caso che per volontà”, si legge in un rapporto pubblicato in occasione del forum di Singapore dall’International Institute for Strategic Studies, un centro studi britannico. “In effetti, con l’intensificarsi della coercizione cinese su Taiwan, il rischio di un’escalation involontaria sta aumentando”.

Howard W. French, professore alla Columbia University Graduate School of Journalism e firma di Foreign Policy, si è interrogato sugli scenari bellici attorno a Taiwan. Si è posto due domande. La prima: chi vincerebbe? La seconda: per chi Taiwan vale di più? Gli analisti sono divisi sulla prima. E così la seconda può aiutare.

“È più facile rispondere a questa domanda per la Cina che per gli Stati Uniti”, scrive. “Per una nazione la cui ideologia di governo, il comunismo, è fortemente in contrasto con le realtà economiche, il nazionalismo è diventato sempre più la forza vincolante della vita pubblica e (…) il perseguimento dell’annessione di Taiwan stimola ancora un senso unitario di scopo, agendo come una sorta di erba gatta nazionalista”.

Per gli Stati Uniti, l’importanza di Taiwan è meno evidente. “Pochi americani sono stati sull’isola o dedicano un momento della loro giornata a pensarci”, osserva il docente. Ma l’impegno americano ha a che fare con il potere globale. “Se gli Stati Uniti permettessero alla Cina di prendere il controllo di Taiwan, la posizione dell’America in Asia, e quindi come potenza globale, crollerebbe da un giorno all’altro”, scrive. “La sua struttura di alleanze in Oriente si sgretolerebbe e la Cina diventerebbe l’egemone regionale, nonostante le numerose proteste in senso contrario. Se, allo stesso modo, la Cina dovesse prevalere in un conflitto su Taiwan, non solo sarebbe in grado di controllare vicini come il Giappone e la Corea del Sud (tra gli altri), ma, avendo già la più grande marina militare del mondo, controllerebbe presto l’intero Pacifico occidentale”.

Il governo cinese non parla apertamente della posta in gioco, continua l’esperto. Il motivo? Ovvio: non vuole spaventare gli altri. Ma per una democrazia come gli Stati Uniti, e per i suoi alleati più coinvolti, “questo è inaccettabile”. Si può essere in disaccordo sull’opportunità di erodere l’ambiguità strategica statunitense su Taiwan come fatto in questi mesi dal presidente Joe Biden, “ma con una posta in gioco così alta, il pubblico merita una discussione chiara e aperta sugli alti rischi, sui costi e sui benefici della difesa dell’isola”, conclude.

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