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A metà agosto, il Mar Cinese Meridionale è tornato sotto i riflettori a seguito di immagini diffuse da Manila, poi rilanciate a livello internazionale. Mostrano come una nave da guerra della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione abbia accidentalmente speronato un’imbarcazione della Guardia Costiera cinese durante l’inseguimento di una nave della Guardia Costiera filippina di pattuglia nella zona dello Scarborough Shoal, territorio conteso tra i due Paesi. Secondo fonti ufficiali, la nave cinese coinvolta è risultata inutilizzabile. Colpisce dunque il fatto che il cacciatorpediniere cinese abbia scelto di proseguire l’inseguimento della nave filippina per un’ora intera, senza fermarsi a prestare assistenza all’unità della propria Guardia Costiera appena speronata.

Riservatamente, da Manila fonti governative parlano di “comportamento insolito in tempo di pace”, che però rafforza l’impressione di una Cina pronta ad agire come se fosse già in stato di guerra, pur senza averlo dichiarato apertamente. Quanto sta accadendo è parte di un’escalation sempre più marcata nella regione, dove “le azioni di disturbo cinesi aumentano settimana dopo settimana, nonostante siano uscite dalla cronaca occidentale”. Questo è un richiamo velenoso, perché i partner occidentali indo-pacifici come i filippini criticano l’eccessivo occidente-centrismo dei media internazionali, che “dedicano il 90% delle attenzioni alla guerra in Ucraina, ma spesso dimenticano di seguire quello che avviene nell’Indo-Pacifico”.

Manila, oltre all’aggressione – non la prima – segnala anche l’intercettamento di un piccolo velivolo civile con giornalisti a bordo da parte di un caccia cinese, mentre Pechino ha rivendicato di aver respinto la nave da guerra americana USS Higgins dal tratto conteso dello Scarborough Shoal. Un’affermazione smentita dal Pentagono, che l’ha definita una normale operazione di libertà di navigazione (FonOp è l’acronimo tecnico con cui si indicano le Freedom of Navigation Operations).

In questo quadro, il senatore repubblicano statunitense Todd Young, reduce da una missione nelle Filippine, ha parlato con Colin Demarest, autore della newsletter di Axios sulla Difesa, di una situazione “incredibilmente tesa”, descrivendo una presenza cinese massiccia e ostile che ha potuto osservare direttamente. Da Washington ha promosso l’Harpoon Act, che punta ad ampliare pattugliamenti congiunti e scambio di intelligence per contrastare minacce marittime. La mossa si inserisce in un rafforzamento costante della cooperazione tra Stati Uniti e Filippine, che passa attraverso esercitazioni come Balikatan, investimenti nei siti previsti dall’Enhanced Defense Cooperation Agreement e nuovi progetti infrastrutturali.

Resta da capire come evolverà la relazione con la nuova amministrazione Trump, ma al momento il fronte filippino appare come il principale banco di prova del contenimento delle ambizioni cinesi. Anche perché Pechino prosegue la sua strategia di fortificazione del Mar Cinese Meridionale attraverso la costruzione di isole artificiali, basi militari, impianti radar e batterie di missili, con il Pentagono che ha stimato un’espansione di circa 13 chilometri quadrati nella zona delle Spratly, ora costellata di infrastrutture militari specializzate.

Per Pechino, il controllo del Mar Cinese Meridionale non è solo una questione di risorse o sicurezza: una potenza che aspira a un ruolo globale deve dimostrare di dominare innanzitutto le “proprie” acque, dando prova di poter risolvere quelli che considera problemi interni. Da qui il legame diretto con Taiwan e con la narrazione della “Unica Cina” per privare l’Isola di identità Tutto è parte integrante della proiezione di forza e legittimità internazionale di Pechino. In questo contesto, il presidente filippino Ferdinand Marcos Jr., in visita ufficiale in India, ha dichiarato a Firstpost: “Se ci fosse un confronto diretto su Taiwan tra Cina e Stati Uniti, non c’è modo in cui le Filippine possano rimanerne fuori”. Una presa di posizione che ha irritato particolarmente la leadership cinese (anche per l’ambientazione), contribuendo ad alimentare la tensione verbale e non tra Manila e Pechino.

La Cina mostra i muscoli e pressa le Filippine. Ecco perché

La pressione crescente nel Mar Cinese Meridionale risponde a più logiche: il controllo delle risorse, l’allontanamento di Stati Uniti e alleati, e la volontà di dimostrare capacità militare. L’ultimo scontro Pechino-Manila dimostra tutte le dinamiche in gioco

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