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Il presidente emiratino, Mohammed bin Zayed, è arrivato ieri pomeriggio a Doha per una visita lampo. Un incontro con l’emiro Tamin bin Hamad al Thani, un saluto mentre Doha sta vivendo un momento storico — Qatar2022 — che fino a qualche tempo fa sarebbe stato impensabile. Bin Zayed era infatti la mente della decisione, guidata dall’Arabia Saudita, di isolare diplomaticamente il Qatar — una condizione in cui gli altri Paesi del Golfo hanno lasciato Doha per tre e anni e mezzo fino alla riconciliazione di Al Ula del gennaio 2021.

Ma d’altronde nei Mondiali che hanno ospitato il primo incontro pubblico tra il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e il turco Recep Tayyp Erdogan, e che hanno visto il Saudita Mahammed bin Salman mostrarsi in pubblico con la sciarpa della nazionale del Qatar e l’emiro al Thani esultare in tribuna per un gol dell’Arabia Saudita, mentre dal campo i calciatori iraniani lanciavano il loro messaggio contro il regime non cantando l’inno, bin Zayed doveva esserci.

E per marcare la sua presenza non ha scelto un giorno banale. L’emiratino è arrivato a Doha affaccendato, toccata e fuga come si dice perché era atteso ad Abu Dhabi, dove in serata sarebbe arrivato Isaac Herzog, il presidente israeliano che rientrava dal primo (storico) viaggio di un capo di stato di Israele in Bahrein.

Lo stato ebraico è legato a Manama e Abu Dhabi dagli Accordi di Abramo, l’intesa mediata dall’amministrazione Trump e preservata da quella Biden per normalizzare le relazioni israeliane con parte del mondo arabo — quella parte che ha scelto di sostituire portati ideologici con visioni più pragmatiche del futuro.

Di questo genere di lettura più evoluta delle dinamiche regionali (e internazionali) fa parte in forma indiretta anche l’Arabia Saudita, che appoggia di fatto l’intesa abramitica (altrimenti per satelliti come il Bahrein sarebbe stato impossibile partecipare), ma non può ancora prendervi parte de iure, visto il ruolo di custode dei luoghi sacri islamico di cui la famiglia Saud è protettrice (ma ciò non toglie che fra le potenziali evoluzioni che ci saranno a Riad una volta in cui il ruolo di re sarà assunto dall’erede bin Salman ci sarà anche l’ingresso negli accordi: c’è già chi riservatamente ci scommette).

In questi stessi giorni, alti funzionari governativi di Emirati, Bahrein, Marocco, Egitto, Giordania, Sudan e Israele si vedono a Rabat ospiti dell’Atlantic Council e della Jeffrey M. Talpins Foundation per parlare di istruzione, coesistenza, iniziative people-to-people. La conferenza di tre giorni si chiama “N7” e lo scorso anno è stata ospitata da Abu Dhabi. Come ha spiegato William Wechsler, direttore del programma Medio Oriente dell’Atlantic Council, l’obiettivo è concentrarsi su idee e progetti pratici, come la creazione di piattaforme per gli scambi regionali di studenti e giovani e l’aumento della tolleranza religiosa.

“L’educazione e la coesistenza sono importanti per il processo di normalizzazione, in modo che i giovani della regione siano in grado di lavorare insieme”, ha dichiarato detto ad Axios Oren Eisner, presidente della J.M. Talpins Foundation. Anche per questo all’incontro sono state invitate figure da Paesi che non sono parte degli Accordi di Abramo (come palestinesi e sauditi).

Su questo clima dialogante e aperto (su cui Washington, motore di certe attività, ha interesse diretto riguardo a temi come la stabilità, il confronto con Russia e Cina, il contenimento dell’Iran) si dovranno basare futuri progetti di cooperazione regionale come per esempio gli stessi Mondiali del 2030 — per i quali l’Arabia Saudita ha annunciato la candidatura nei giorni scorsi insieme a Egitto e Grecia. E intanto oggi pomeriggio da Rabat si tiferà tutto insieme Marocco, impegnato nel difficilissimo ottavo finale contro la Spagna (una partita dal profondo sapore geopolitico). 

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