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In questi tempi di guerra la novità che almeno su uno scenario si apra una finestra alla pace andrebbe presa in grande considerazione, ma l’accordo di cessate il fuoco fra governo etiope e milizie tigrine siglato a Pretoria è importante per molte più ragioni.

Torno col ricordo a quando volai a Addis Abeba come ministro della Difesa a firmare l’accordo di collaborazione col governo etiope, si usciva allora dall’incubo di un’altra e più lunga guerra, quella fra Etiopia e Eritrea. Ricordo l’inizio di questa, di guerra, i contatti con i rappresentanti in Italia del Tigrè per rassicurarli sulle clausole dell’accordo con l’Etiopia che avrebbero bloccato ogni eventualità di supporto italiano ai loro danni, e poi le sollecitazioni al ministro Lorenzo Guerini affinché si tenesse memoria e fede di quelle clausole. Ricordo le sollecitazioni ai rappresentanti tigrini a non perdere la fiducia nella risoluzione diplomatica più che militare della loro vicenda.

Adesso dopo due anni, segnati sul terreno anche da episodi orribili da entrambe le parti, e tentativi di tregua falliti, sembra finalmente che si sia arrivati a un cessate il fuoco consistente; ne appaiono convinti i firmatari e, cioè, i contendenti e i mediatori, i rappresentanti dell’Unione africana e il Segretario dell’Onu.

L’accordo siglato il 2 novembre a Pretoria, dopo dieci giorni di negoziati, prevede un blocco immediato e permanente dei combattimenti, disposizioni relative alla smobilitazione, al disarmo e al reinserimento (Ddr) dei combattenti Tplf nell’esercito etiope; il ripristino dei servizi pubblici, l’aumento dell’assistenza umanitaria e l’attuazione di misure transitorie per ripristinare l’ordine costituzionale nel Tigrè.

La fragilità dell’accordo di pace

Certo l’intesa potrebbe essere facilmente messa a dura prova dalle difficoltà della sua attuazione, dalla sfiducia tra il Tplf e il governo etiope e dalla presenza di terze parti, le milizie Amhara (o Fano) e le forze militari eritree. Anche perché in nessun modo essa tenta di porre fine alle storiche origini etniche del conflitto. Dunque, la violenza potrebbe sempre riesplodere. Per questo è molto importante che ci sia una forte tenuta iniziale della pace che renderà probabile la riapertura dei corridoi umanitari e agevolerà l’avvio di un negoziato di pace più forte tra governo etiope e il Tplf ponendo le basi per la ricostruzione nazionale post-bellica.

Tra guerra in Ucraina e pace in Etiopia

Tra i fattori che hanno condotto alle trattative in Etiopia ci sono anche i riflessi della guerra in Ucraina, in primo luogo, per l’effetto di questa sul mercato dei cereali, che ha portato a un aumento della fame in ogni parte del terzo mondo e, in maniera più drammatica, nei teatri di guerra. Etiopia e Tigrè non possono continuare a combattere soprattutto perché stanno morendo di fame, sia le loro popolazioni civili che i loro soldati.

Il ruolo della Wagner

Inoltre, Etiopia e Tigrè non hanno la stessa spinta a combattere che avevano prima a causa del drenaggio di combattenti e armi provocato dall’Ucraina. Infatti, gli addestratori giunti a Addis Abeba assieme agli armamenti in questo biennio erano gli onnipresenti emissari della milizia russa Wagner di Evgenij Prighozin, già attiva nel vicino Sud Sudan. Ma con il crollo delle linee russe in Ucraina, i Wagner di stanza in Africa hanno subito un brusco richiamo da Mosca. In Etiopia, causa il basso costo della manovalanza locale, nel ritirarsi hanno pensato bene di portarsi dietro gli elementi locali ritenuti più validi, e queste diserzioni indotte dall’esercito etiope hanno ulteriormente incrinato la disposizione a proseguire le ostilità di quel governo. Dunque, speriamo bene!

Il ruolo dell’Italia per una pace duratura

Se ancora non vi è maturazione di condizioni per cogliere la Pace sul fronte più caldo in Europa, sarà il caso di seguire l’indicazione illuminata del Santo Padre, cogliere occasioni di pace ovunque ve ne siano, ovunque vi siano uomini di buona volontà disposti a costruirla. E la concentrazione di milizie e strumenti di morte su un solo fronte, quasi inevitabilmente, creerà spunti di pace in tanti altri contesti che ne abbisognano da tanto, in Africa, in Asia, in Sud America.

E la pace dopo il primo passo, va puntellata e poi bisogna costruirci sopra: restando a Etiopia e Tigrè tanto ha fatto l’Italia nell’area etiope per migliorarne l’agricoltura e l’industria artigiana; tanto può fare per risolvere diplomaticamente il problema delle acque che si annoda attorno all’uso conteso della diga Gerd significativa opera di ingegneria, che l’Italia ha costruito; tanto di più può fare estendendo lo sguardo al Corno d’Africa e al Mar Rosso, a aree circonvicine verso cui ha debiti storici secolari e dalla cui collaborazione non può che nascere reciproco vantaggio.

Fra l’altro – bisognerebbe sempre tenerlo a mente – dalla fame e dalle guerre di queste aree nascono tanti dei flussi migratori e di profughi verso il Mediterraneo e l’Ue di cui ci limitiamo a constatare (o magari a tentare di reprimere) il cammino ultimo, mentre individuare, discutere, curare nelle aree di origine i problemi storici, favorendo lo sviluppo e la cooperazione, sarebbe soltanto di convenienza per tutti.

Così l’Italia può aiutare la fragile pace nel Tigrè. Il punto di Trenta

L’accordo firmato il 2 novembre è fragile, ma se le parti si impegnano, si può arrivare a una pace duratura e l’Italia deve adoperarsi per questo. Il punto di Elisabetta Trenta, esperta di difesa e sicurezza e già ministro della Difesa

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