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Nei primi di agosto, l’amministratore pro tempore della Nasa, nonché segretario ai Trasporti degli Stati Uniti, Sean Duffy, ha annunciato che gli Usa intendono accelerare i loro sforzi per installare un reattore a fissione nucleare sul suolo lunare entro il 2030. Secondo Duffy, a sua volta incaricato dall’amministrazione Trump di portare avanti questo progetto, il reattore potrebbe costituire una fonte di energia costante e indipendente da condizioni esterne per le future attività umane sul satellite, oltre a rappresentare una “roccaforte” contro eventuali pretese territoriali di Russia e Cina sulla Luna.“Per promuovere adeguatamente questa tecnologia fondamentale in grado di sostenere una futura economia lunare, la produzione di energia ad alta potenza su Marte e rafforzare la nostra sicurezza nazionale nello spazio, è fondamentale che l’agenzia agisca rapidamente”, ha dichiarato Duffy, sottolineando come, per quanto fantascientifico possa apparire, il progetto sia entrato nella lista delle top priority dell’Agenzia spaziale americana.

A cosa servirebbe?

Attualmente, i piani per il ritorno (e la permanenza) dell’uomo sulla Luna – previsto, forse troppo ottimisticamente, per il 2027 — prevedono che le strumentazioni, i sistemi di supporto vitale e i moduli abitativi sul satellite vengano alimentati dall’energia solare. Tuttavia, un giorno lunare corrisponde a quattro settimane terrestri, con un ciclo giorno/notte di due settimane, il che potrebbe rappresentare un ostacolo non indifferente alla conduzione di attività continue sulla Luna. Dunque, sotto il profilo della sostenibilità energetica della colonizzazione lunare, le questioni sono due: o si riesce a sviluppare batterie in grado di immagazzinare energia sufficiente ad alimentare i sistemi durante le due settimane di buio, oppure si rende necessaria una produzione energetica costante e non vincolata alla disponibilità di luce solare. Ci sarebbe anche una terza opzione: sfruttare il polo Sud lunare, dove il sole non “tramonta” mai completamente sulle creste di alcuni crateri. Tale soluzione, però, renderebbe virtualmente impossibile sostenere complessi abitativi troppo lontani dal polo. Di conseguenza, un reattore nucleare potrebbe rappresentare la soluzione più immediata.

È possibile mettere un reattore sulla Luna?

Tecnicamente, sì, e anche in fretta. Quella che viene definita “colonizzazione lunare”, almeno per i primi tempi, consisterà nel sostenere la permanenza di poco personale selezionato e di una ampia gamma di strumentazione tecnica per la conduzione di esperimenti e attività di ricerca. Pertanto, un reattore come quello immaginato dalla Nasa, dalla potenza di 100 kW, capace di sostenere il fabbisogno energetico di circa 80 famiglie, sarebbe più che sufficiente allo scopo. 

Considerando che i reattori convenzionali che siamo abituati a vedere sulla Terra sono in grado di produrre centinaia di milioni di watt di energia elettrica, le dimensioni di questo reattore lunare sarebbero decisamente più contenute. Più o meno quelle di un normale container commerciale. I piani preliminari della Nasa prevedono che il reattore debba essere assemblato e reso pronto all’uso sulla Terra, trasportato in stato di inattività fuori dal pianeta e acceso solo una volta posizionato sul suolo lunare. Perché ciò sia possibile, sarà necessario anche un lander lunare in grado di trasportare il reattore interamente assemblato sulla superficie del satellite. A tal proposito, tutti i progetti per costruire mezzi da sbarco sulla Luna sono ancora in fase di sviluppo, incluso quello targato SpaceX. Ciononostante, le autorità americane si dicono fiduciose di riuscire a realizzare l’opera già nel 2030.

Imperialismo lunare?

Quando termini come colonizzazione e geopolitica entrano nel discorso spaziale, i parallelismi con il 19simo secolo e l’epoca dei grandi imperi coloniali risultano inevitabili. D’altronde, è una Storia (con la S maiuscola) già vista: nuove scoperte e nuovi mezzi di trasporto rendono improvvisamente “conquistabile” un luogo fisico fino ad allora inaccessibile (o sconosciuto, nel caso delle Americhe), ed è lì che i grandi attori interessati a sfruttarne posizione e risorse entrano in competizione tra di loro e iniziano a pensare di piantare la propria bandiera e dichiarare: “questo posto è mio”. Tuttavia, nel caso della Luna— e dello spazio in generale —, non è (ancora) così. 

La cosiddetta territorializzazione dello spazio extra-atmosferico è disciplinata dall’Outer space treaty (Ost) del 1967, che definisce lo Spazio come un bene comune dell’umanità e pertanto non assoggettabile ad alcuna sovranità statuale. All’epoca (nonostante ci si trovasse in piena Guerra fredda) lo Spazio era visto come un terreno franco, dove le rivalità endo-atmosferiche avrebbero lasciato il passo a una collaborazione disinteressata e nell’interesse comune della specie umana. Eppure, sono proprio le attuali regole di buona convivenza nello spazio a configurare un possibile escamotage per appropriarsi, di fatto, di una parte della Luna. La conduzione di esperimenti o attività scientifiche, per non parlare del mantenimento in attività di un reattore nucleare, permette di dichiarare una zona d’esclusione entro la quale non si possa stazionare o transitare onde evitare possibili incidenti. Secondo l’attuale capo della Nasa, Russia e Cina stanno pianificando la costruzione di un reattore nucleare lunare per la metà degli anni 30 proprio per “reclamare” di fatto porzioni del suolo del satellite. Per questo motivo gli Usa intendono portarsi avanti ed essere pronti a lanciare il reattore già nel 2029. Considerando che il programma di colonizzazione lunare statunitense si inserisce negli Artemis Accords (sottoscritti da 56 Paesi), il reattore e la sua relativa zona di esclusione non rappresenterebbero tanto un modo per reclamare un pezzo di Luna come territorio americano, quanto più una garanzia che almeno quella zona rimarrebbe libera e sottoposta a una regia multilaterale.

Non da ultimo, bisogna considerare anche l’aspetto militare della questione. Entro pochi anni, la Luna rappresenterà il nuovo high ground strategico, oggi costituito dalle orbite terrestri. Il pianificatore strategico è sempre alla ricerca di una posizione sopraelevata da cui poter ottenere un vantaggio rispetto all’avversario, e questo discorso vale sempre di più anche per lo spazio extra-atmosferico. L’Ost proibisce di installare armamenti nucleari fuori dall’atmosfera, ma questo non può applicarsi a un reattore a uso civile o ad altre strumentazioni non classificabili come armi di distruzione di massa. Tuttavia, è indubbio che la disponibilità di energia costante e di un’area “a traffico limitato” sulla superficie lunare possano comportare diversi vantaggi tattici e logistici, pur senza coinvolgere l’impiego di armamenti non convenzionali. La colonizzazione spaziale non è ancora iniziata, ma il rischio che il passaggio dal colonialismo all’imperialismo si ripeta come in passato è più che concreto. Perché tale scenario non si trasformi in realtà, saranno necessari consapevolezza e sforzi significativi. Uno su tutti, creare un nuovo trattato sulle attività umane nello spazio che tenga conto delle opportunità offerte dalla tecnologia e di scenari “astropolitici” che, nel 1967, erano semplicemente ritenuti fantascienza.

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Un reattore nucleare, dalla potenza di almeno 100 kW, sulla superficie lunare entro il 2030. Questa la sfida lanciata dagli Stati Uniti per battere sul tempo Russia e Cina. Il reattore, delle dimensioni di un normale container, verrebbe trasportato già assemblato sulla Luna e l’operazione stessa rappresenterebbe una prova generale in vista della colonizzazione di Marte. Non solo scienza però, sulla colonizzazione del satellite naturale della Terra si gioca anche una partita tutta geopolitica

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