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Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti “accolgono con favore i progressi compiuti nei colloqui tra il Comitato congiunto della Camera dei Rappresentanti (HoR) e l’Alto Consiglio di Stato al Cairo, facilitati dalla Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL)”.  Le cinque nazioni occidentali più attive sul dossier libico hanno diffuso nei giorni scorsi un comunicato congiunto in cui apprezzano “il grado di consenso raggiunto finora verso un accordo”, rilanciano il lavoro del Consigliere speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, Stephanie Williams, appoggiano le attività dell’UNSMIL. Ma contemporaneamente ricordano che la roadmap del Libyan Politcal Dialogue Forum (LPDF) prevedeva la scadenza della fase transitoria il 22 giugno, a condizione che le elezioni presidenziali e parlamentari si svolgessero il 24 dicembre 2021, cosa che non è avvenuta. Stante ciò, “sottolineiamo – scrivono – la necessità di un governo libico unificato in grado di governare e svolgere queste elezioni in tutto il Paese, da raggiungere attraverso il dialogo e il compromesso il prima possibile”.

La situazione in Libia resta di stallo istituzionale. Il dialogo impostato a Ginevra dalle Nazioni Unite, con l’assistenza della Comunità internazionale che vede l’Italia in primo piano, mira intanto a raggiungere due obiettivi. Il primo è la definizione di una legge elettorale, il secondo è stringere sul quadro costituzionale. I leader della Camera HoR e dell’Alto Consiglio si parlano, ed è già un segnale positivo. I due, Agila Saleh e Khaled Misrhi, hanno posizioni ideologicamente distanti e hanno interlocutori interni ed esterni alla Libia un tempo altrettanto distanti. Il loro sforzo verso il dialogo – già attivato al Cairo – rappresenta un altro tassello di quel riorientamento d’astri che sta interessando il Mediterraneo allargato, dove attori prima diversi – Turchia e Qatar, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi – sono tornati a parlarsi per cercare di dipanare le matasse regionali. E la Libia è una di queste, già campo di battaglia di certi scontri interni, basati su differenze ideologiche riguardo l’interpretazione dell’Islam sunnita, e su competizioni di carattere geopolitico nella regione.

Eppure Tripoli sembra non trovare una soluzione. “Respingiamo fermamente le azioni che potrebbero portare alla violenza o a maggiori divisioni, come la creazione di istituzioni parallele, qualsiasi tentativo di prendere il potere con la forza o il rifiuto di una transizione pacifica del potere a un nuovo esecutivo formato attraverso un processo legittimo e trasparente”, dice lo statement dei cinque attori occidentali.

La deriva armata è il rischio di una situazione in potenzialmente decomposizione, stagnante da mesi. Da una parte c’è Abdelhamid Dabaiba, premier eletto dal percorso onusiano del LPDF col compito (fallito) di portare il Paese alle elezioni; dall’altra Fathi Bashaga, incaricato dal parlamento HoR di sostituire Dabaiba. Il primo, nonostante sfiduciato politicamente, non intende lasciare il suo ruolo, in quanto si sente legittimato dall’Onu e vuole uscire dall’ufficio solo dopo un voto. L’altro, forte della fiducia parlamentare ricevuta, dovrebbe prendere incarico ufficialmente, ma non riesca a entrare a Tripoli e non ha intenzione di farlo con la forza (sarebbe, d’altronde, un’immediata delegittimazione del proprio mandato).

Davanti a questo stallo sta emergendo una soluzione alternativa: la nomina di un mini-governo da affidare a una figura terza e in grado di raccogliere su di sé un consenso trasversale. Il compito di questo esecutivo sarebbe secco: portare il Paese al voto entro un anno, massimo un anno e mezzo. Se ne parla anche a Ginevra e in varie cancellerie occidentali, ma serve un impegno comune tra gli attori libici. Sono loro ad avere in mano la partita sul destino del loro Paese al momento.

Anche perché la situazione pesa sui libici. La Banca Centrale, istituzione che cerca di mantenere terzietà, ha bloccato qualsiasi genere di emolumento sia verso il governo uscente che quello entrante. Il bilancio statale non c’è. La NOC, la società petrolifera statale, altro ente terzo, ha annunciato che il peggioramento della crisi politica – e delle proteste collegate che impegnano gli impianti – potrebbe portare alla decisione di bloccare nuovamente le attività dei terminal chiave nel Golfo della Sirte. Le tensioni interne – tra cui le proteste e gli attacchi armati che hanno preso di mira le installazioni petrolifere e del gas – hanno fatto crollare la produzione giornaliera di petrolio della Libia all’inizio di giugno a poco più di 100.000 barili al giorno. Il calo si è verificato quando i manifestanti hanno costretto i lavoratori a chiudere i principali terminal di esportazione nel Golfo della Sirte. La produzione del Paese – che ha un potenziale di 1,2 milioni di barili – si era già dimezzata a 600.000 barili al giorno a metà aprile, dopo che i gruppi armati avevano chiuso i principali giacimenti di Sharara e El Feel.

Questo drastico calo delle entrate petrolifere sembra aver attirato l’attenzione dei leader rivali, che negli ultimi giorni si sono mossi per limitare gli attacchi alle infrastrutture chiave. Il 24 giugno, i funzionari libici dell’energia hanno dichiarato che la produzione si sta riprendendo, cresciuta a circa 800.000 barili al giorno, ma poi questa settimana sono arrivati i nuovi avvertimenti sulla possibilità che la violenza continua possa costringere a temporanee interruzioni delle esportazioni. Quattro tanker sono fermi da cinque giorni al largo di Sidra attendendo di caricare il greggio, operazioni impedite dalle proteste: una fotografia più che convincente dello stato delle cose. L’inviato speciale degli Stati Uniti, l’ambasciatore Richard Norland, ha avuto un incontro in questi giorni con Dabaiba per parlare del blocco petrolifero. L’ambasciata americana ha utilizzato termini chiari, sostenendo che la feluca ha stressato sulla necessità di superare l’empasse.

Anche perché arriva in un momento in cui il mercato – a causa della guerra russa in Ucraina – ha bisogno della massima stabilità dei flussi. Il peso di questa crisi è però diretto sui cittadini della Libia: Tripoli, la capitale, è ormai per oltre dieci ore al giorno senza corrente elettrica, segnando un deterioramento delle condizioni di vita. Gli scontri armati a Tripoli dimostrano che i sostenitori delle amministrazioni rivali sono disposti a usare la forza per ottenere risultati politici favorevoli, anche se ciò danneggia la popolazione civile e l’economia. L’assenza di un dialogo e di un quadro stabile sta complicando la ripresa dalla pandemia e la capacità delle Libia di cavalcare i riflessi della guerra ucraina, che potrebbe colpire il Paese anche dal punto di vista della crisi alimentare.

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