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Il summit tra Donald Trump e Vladimir Putin in Alaska è arrivato senza preavviso e in modalità inattese. Già questo avrebbe richiesto cautela. Invece si è replicata la consueta fiera di commenti a caldo, raramente destinati a durare. A distanza di giorni, l’appuntamento suggerisce riflessioni che il mainstream ha trascurato.

Normalizzazione preliminare

Il summit di Anchorage evidenzia anzitutto un dato diplomatico. In quello che è stato di fatto un conflitto (indiretto) tra Stati Uniti e Russia sul terreno ucraino, non è realistico immaginare un percorso di pace senza una preventiva normalizzazione dei rapporti bilaterali tra Mosca e Washington.

In questo senso, l’incontro ha rappresentato una tappa fondamentale. Non tanto per i contenuti immediati, quanto per il valore preliminare di ristabilire un canale diplomatico stabile e riconosciuto come imprescindibile.

Su un piano più ampio, la normalizzazione ha un significato geopolitico autonomo: non solo strumentale al dossier ucraino, ma obiettivo politico di per sé, destinato a incidere sull’architettura del nuovo ordine internazionale. Trump si è presentato come leader dell’Occidente, Putin come rappresentante di punta del blocco eurasiatico dei Brics.

Legittimazione reciproca del carisma

Un secondo elemento riguarda la reciproca legittimazione del carisma dei due leader. In un contesto internazionale in cui il carisma appare spesso più un aggravante che un requisito di leadership – soprattutto in Occidente, dove viene percepito come minaccia agli equilibri istituzionali – per Trump e Putin resta una risorsa politica primaria.

Il summit ha messo in evidenza la legittimazione carismatica reciproca dei due leader: non un semplice riconoscimento istituzionale, ma un rafforzamento personale che conferisce al negoziato una dimensione ulteriore, capace di andare oltre le divergenze e da cui entrambi traggono beneficio.

Sincronizzazione Washington-Mosca

Il summit ha anche confermato la continuità dei nuovi canali di comunicazione russo-americani. Nonostante il recente duro scontro polemico tra Trump, Lindsay Graham e Dmitri Medvedev, i contatti dietro le quinte non si sono mai fermati, anzi si sono intensificati.

Come dicevamo nel precedente contributo per Formiche più che di coordinamento si può parlare di sincronizzazione tra Mosca e Washington: tempi e modalità delle loro agende che, senza essere concordati, tendono a corrispondersi.

Non implica convergenza di obiettivi, ma segnala che la relazione bilaterale conserva una propria logica diplomatica, capace di resistere anche nei momenti di tensione.

Le opposizioni interne a Trump e Putin

Un ulteriore aspetto riguarda la distanza tra rappresentazione pubblica e realtà decisionale. La narrativa mediatica descrive Trump e Putin come alfa e omega dei rispettivi sistemi, ma entrambi operano entro strutture di potere complesse.

Trump deve fronteggiare l’opposizione del potente complesso militare-industriale americano e di ampie componenti dell’intelligence espressione del Deep State, eredi della “dottrina Brzezinski” di contenimento e contrapposizione degli Usa alla Russia.

Putin deve misurarsi con il peso dei militari dell’Armija Rossii, attore tradizionalmente autonomo e determinante nelle scelte strategiche in tempo di guerra, e con lo scetticismo dell’intellighenzia filogovernativa sulla stabilità delle posizioni americane: oggi per l’imprevedibilità di Trump, domani per l’incertezza legata al prossimo presidente degli Stati Uniti.

Dopo la guerra, prima della pace.

La fase negoziale in corso punta dunque in primis alla normalizzazione dei rapporti tra Stati Uniti e Russia, obiettivo utile ad entrambi su più piani: strategico-militare (accordi nucleari), economico-commerciale (politiche energetiche e gestione delle risorse naturali), geopolitico (nuovo ordine mondiale).

È un processo destinato a proseguire, anche se fatica a tradursi in progressi sul dossier ucraino, dove le posizioni restano inconciliabili, in particolare quelle di Mosca, Kyiv e dell’Europa. Trump vede nella normalizzazione uno strumento di gestione bilaterale e l’opportunità di passare la patata bollente del dossier ucraino all’Europa (come emerso anche nel recente summit con Volodymyr Zelensky e i leader europei a Washington, più simbolico che sostanziale).

Quest’ultima appare divisa e senza iniziativa, accodata come sempre agli Stati Uniti, ma con l’obiettivo di guadagnare tempo ed evitare di dover gestire politicamente l’eventualità di una certificata vittoria russa. Dal canto suo, Mosca continua una guerra di attrito che punta a logorare le difese ucraine in difficoltà, consolidare le conquiste sul campo di battaglia e a trasformarle in condizioni politiche non negoziabili, aprendo al dialogo solo se recepisce le nuove realtà territoriali.

Dovessero cristallizzarsi queste posizioni, ne riemergerebbe lo spettro di negoziati prolungati nel lungo periodo e di un conflitto congelato o a bassa intensità. Un “dopo la guerra, prima della pace”. Un intervallo armato tra la guerra attuale e quella prossima.

Dopo la guerra, prima della pace. Trump e Putin tra normalizzazione e conflitto congelato

A distanza di giorni dall’incontro di Anchorage emergono riflessioni più profonde: la normalizzazione tra Mosca e Washington come premessa negoziale, la logica autonoma del dialogo bilaterale e il ruolo delle opposizioni interne a entrambi i leader

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