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Ripassiamoci, per un attimo, la “legge Jean Renoir”. Negli “Scritti sul cinema”, del grande regista del “realismo poetico francese” degli anni Trenta, leggiamo: “Entro in sala, mi siedo. Vedo i primi cinque minuti. Se rimango incollato sulla sedia allora sto scoprendo un capolavoro”. Provate a rivedere Scarface (Lo sfregiato, 1932) di Howard Hawks (Il sergente York, 1941; Il fiume rosso, 1948; Gli uomini preferiscono le bionde, 1953; Un dollaro d’onore, 1959, per ricordare i più noti).

La prima scena, un lungo piano-sequenza, fu ritenuto l’incipit più coinvolgente della storia del cinema mai visto sino ad allora. Esterno di un ristorante: la camera scende dal lampione acceso in strada, che si spegne improvvisamente, metaforicamente; carrellando, entra nel locale seguendo il cuoco-cameriere. Questi inizia a spazzare il pavimento pieno di coriandoli ammonticchiati, altri scendenti dai lampadari, testimoni silenti di una festa terminata. Un uomo sta parlando, voce off. Senza stacco la camera avanza, supera il cuoco, e scopre dei tavoli vuoti sino ad un tavolo presso cui sono seduti tre uomini; colui che parla sta argomentando, a due suoi amici, come spartirsi, “democraticamente” una città tra bande rivali.  La camera si ferma, in piano d’insieme, e aspetta. I tre terminano la conversazione. Poi i due salutano il capo, “Big Louis”, che rimane solo. Questi pesca un cent da una tasca, va al telefono a muro; la camera riparte, lo accompagna, poi lo supera e va oltre. Sulla colonna audio entra un fischio monotono, accompagna la sagoma di un uomo. Seguiamo, di là da una vetrata opaca, la sagoma avanzare, la camera sta tornando indietro: la silhouette nera alza un braccio che impugna una pistola. L’uomo della sagoma chiama: “Ehi Big Louis!”. Fuoco. La sagoma dell’assassino pulisce il manico dell’arma con un fazzoletto e la getta verso il cadavere. Fine piano-sequenza. Stacco. Big Louis è a terra, inanimato, con la pistola accanto. La sagoma dell’assassino rapidamente è uscita di scena, sempre di là dal vetro opaco. Taglio. Il cameriere si avvicina al cadavere riverso sul pavimento, lo guarda impaurito. Si toglie la giacca bianca, si avvicina allo spogliatoio, di là dai piedi del cadavere, prende la giacca scura e il cappello dall’appendiabiti. Lascia il salone, affrettando il passo, quasi correndo, senza far rumore.

Naturalmente siamo ai primi film sulla mafia e il tema è quello della lotta tra bande in guerra per il traffico illegale di prodotti non tassati, quali alcool e tabacco, oltre al ricatto del “pizzo”. Sino al Padrino II (1974, Francis Ford Coppola) il cinema non indaga ancora (e la censura non lo avrebbe permesso) sulle eventuali connessioni con settori corrotti della politica o dello Stato in senso lato.

Ma Scarface è, comunque, un perfetto racconto sulla mentalità mafiosa, quella alimentata da brutali esecuzioni, in cui il capobanda, Tony Camonte, è ispirato al boss di Chicago, Al Capone. Il film è una sorta di western trasportato nella metropoli del Novecento: l’uomo cattivo con la sua banda che colpisce altre bande e al contempo sfugge e sfotte gli uomini di legge.

La ricchezza del testo filmico (dal romanzo Scarface di Armitage Trail), sceneggiato con anticipo sui tempi da Ben Hutch, sta nello spessore dei personaggi, dai comprimari alle seconde file. Dallo psicopatico razionale Tony Camonte (un superbo Paul Muni) alla mirabilmente ambigua sorella Cesca (la eterea Ann Dvorak); dal boss Lovo, diagrammato nel graduale deterioramento da temuto capo a vittima implorante pietà (il caleidoscopico Osgood Perkins), alla affascinante e perturbante Poppy (la sinuosa Karen Morley). Dal fedele collaboratore e onesto killer, Gino Rinaldo (il silenzioso e tagliente George Raft), al comico analfabeta guardaspalle Angelo (Vince Barnet, che al telefono si presenta come “secretario di Tony Camonte”) fino al mefistofelico killer rivale, Gaffney (Boris Karloff, ex Frankestein).  Hawks e Hutch ci mostrano come la tragedia e la farsa crescano insieme dal terreno seminato con la banalità del male.

Regista e sceneggiatore articolano l’asse diegetico in tempi rapidi e sincopati, con azioni diverse, violente o ironiche, immediatamente riflesse nel plot e nelle psicologie, guadagnando così una continua progressione narrativa chiamata a spiazzare lo spettatore, ancora legato ai pausati tempi del cinema muto. Si passa dalla fredda inopinata esecuzione di Lovo da parte di Gino, sotto ordine e sguardo di Tony, al corteggiamento inelegante ma efficace di Tony nei riguardi di Poppy, che sa disarmarlo linguisticamente, con fine ironia, ma poi cede al fascino del macho. Ecco, improvvisa, l’irruzione delle raffiche a mitraglia tra bande a bordo delle berline in corsa per la città di notte; o la sparatoria finale con Tony Camonte barricato in casa mentre risponde vanamente al fuoco della polizia, e Cesca che, in un atto di “amore”, gli carica le pistole. Si termina con l’inattesa dichiarazione di amore di Cesca per suo fratello Tony (e la critica parlò di chiaro sentimento incestuoso) seguita poco dopo dalla delusione della donna quando scopre suo fratello, il duro e spietato Tony Camonte, in preda al terrore della morte.

La fortuna di Scarface, uscito nell’aprile del 1932 (in Italia, vietato dal regime, arriverà nel 1947), si deve in gran parte a Paul Muni (nato a Odessa, nell’anno in cui nasceva il cinema, 1895), emigrato da piccolo in Usa e buon attore di teatro jiddish. Per quel suo modo di muoversi con tracotanza sul set, quel gesticolare privo di ghirigori, e quello sguardo da delinquente nato. Fortuna del personaggio aumentata, nella versione italiana, dall’accento minacciosamente napoletano del doppiatore Antonio Palumbo.

La scommessa di Hawks era dirigere Paul Muni in un ruolo non facile, già bruciato al cinema, poiché magistralmente portato sullo schermo. Infatti, pochi mesi prima, nelle sale americane, erano usciti due gangster-movie, che avevano addirittura fondato il genere e incantato milioni di spettatori: Little Caesar (1931) e The Public Enemy (1931), con  protagonisti due attori eccezionali: Edward G. Robinson e James Cagney.

Paul Muni seppe giungere allo loro altezza, con una recitazione sinfonica, forse sporcata da qualche scoria di melodramma, ma meno meccanica rispetto a quelle di Robisnon e Cagney. Magari anche grazie alla cicatrice a forma di croce sullo zigomo sinistro: un segno prolettico del ladrone che sceglie di non redimersi.

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