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Lo scorso 4 aprile la Nato ha compiuto 73 anni ed è tuttora forte e vitale. Tra le numerose istituzioni multilaterali, che da tempo subiscono un processo di progressiva delegittimazione sotto i colpi di autoritarismi e populismi, essa spicca per la propria capacità di risorgere sempre dalle proprie ceneri. Da Donald Trump che la dichiarò “obsoleta” a Emmanuel Macron che, più recentemente, aveva parlato di “morte cerebrale”, in molti, negli ultimi decenni, hanno tentato invano di celebrarne i funerali.

Non vi è dubbio che l’elemento principale che ha garantito la sopravvivenza della Nato sia stata la sua straordinaria capacità di adattamento di fronte ai continui e sempre più veloci cambiamenti degli scenari globali.

Oggi, tuttavia, per la prima volta la dimensione legata agli equilibri globali supera quella tecnologica e militare. Con il profilarsi minaccioso di un nuovo bipolarismo mondiale tra democrazie e autocrazie, i governi dei Paesi membri dell’Alleanza atlantica sono chiamati a un vero e proprio esercizio di resilienza politica.

Il terreno più scivoloso sul quale questa partita si gioca è senza dubbio quello di eventuali nuovi ampliamenti della Nato.

Il Trattato di Washington, all’articolo 10, stabilisce che “le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire a questo Trattato ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”.

Questo articolo, nella sua attuale formulazione, presenta due punti di criticità. Il primo consiste nel fatto che la dinamica prevista è l’invito da parte dei Paesi membri ad altri Stati, mentre sembra non essere contemplata l’ipotesi che siano invece questi Stati a chiedere di aderire all’Alleanza. Anche dal punto di vista comunicativo, questa formulazione fornisce spazio alla narrativa di Vladimir Putin sul cosiddetto “allargamento”, termine che presuppone una volontà della Nato di estendersi “invitando altri Paesi” e non invece la possibilità che la Nato stessa accolga Paesi che liberamente chiedono di aderirvi, come peraltro finora accaduto dopo la fine della Guerra fredda. La seconda criticità consiste nel fatto che le nuove adesioni debbano “contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”, definizione di per sé restrittiva nel mondo globalizzato di oggi. Tra l’altro, già si levano voci di dissenso rispetto alla probabile richiesta di adesione di Finlandia e Svezia che, a detta di alcuni, non contribuirebbe affatto alla sicurezza del Nord Atlantico, anzi costituirebbe un elemento di ulteriore destabilizzazione nei confronti della Russia.

L’entrata nella Nato dei due Paesi scandinavi, storicamente neutrali, potrebbe scatenare una sorta di effetto-domino, se si considera che ormai anche la gran parte dell’opinione pubblica in Svizzera sembra propendere per l’apertura di un dialogo con la Nato. E non sarebbe da escludere un cambio di atteggiamento neppure da parte dell’Austria.

In questo contesto si inserisce l’annoso tema del completamento dell’integrazione euro-atlantica dei Balcani occidentali, dove il processo di adesione della Bosnia-Erzegovina segna il passo da troppo tempo e potrebbe subire una accelerazione. D’altro canto, la stessa Serbia, che pur ribadendo di non voler entrare nella Nato, mantiene da tempo con essa forti relazioni di partenariato, lancia un segnale importante esprimendosi per due volte contro Mosca nelle recenti votazioni alle Nazioni Unite.

Queste possibili evoluzioni comporterebbero una sempre più forte presenza dell’Alleanza nel continente europeo e, soprattutto, spingerebbero ad una sempre maggiore sovrapposizione tra Nato e Unione europea (con Finlandia e Svezia arriverebbero a 24 i Paesi appartenenti ad entrambe le organizzazioni). Un dato politico, questo, fondamentale nel ridisegnare, rafforzandolo, anche il complesso rapporto tra Nato e Unione europea.

È scontato che ogni nuova adesione costituirà un ulteriore pretesto in chiave anti occidentale nelle mani della propaganda di Putin e troverà molta eco da parte delle numerosi voci filorusse – copiosamente innaffiate di petrorubli – che, come vediamo in queste settimane, popolano le democrazie europee approfittando di quella libertà di opinione che, invece, Mosca da sempre nega al proprio interno.

Ma un ulteriore e più grave tema si porrebbe nel momento in cui l’avvio di eventuali adesioni dovesse riguardare Paesi al di fuori dell’Europa, come potrebbe essere il caso dell’Australia e della Nuova Zelanda. È chiaro che l’estensione del raggio d’azione della Nato al di fuori del contesto del Nord Atlantico, imporrebbe un ripensamento anche formale del Trattato di Washington e sarebbe certamente assai gradito a Giappone e Corea del Sud, che stanno schierandosi con l’Occidente nella vicenda ucraina soprattutto in chiave anti-Pechino.

Tuttavia, un’operazione che prefigurasse una sorta di accerchiamento della Cina avrebbe l’inevitabile conseguenza di consolidare il patto tra Pechino e Mosca, anziché lavorare per una loro divisione.

La vera domanda che si pone al livello politico della Nato è dunque: l’Alleanza atlantica è destinata a diventare una sorta di alleanza politico-militare delle democrazie contro le autocrazie?

Un’eventualità certamente non auspicabile per i nuovi equilibri globali.

Su queste prospettive e su quest’ultima domanda si misurerà il grado di resilienza politica della Nato e dell’intero Occidente.

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