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Il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan, ha preso la decisone di chiudere gli stretti di Dardanelli e Bosforo e di fermare il passaggio delle navi militari sul Mar Nero. La decisone è stata mossa anche dalla richiesta di Volodymyr Zelensky: il presidente ucraino, con cui il turco ha stretto accordo di collaborazione, lo chiedeva come forma di assistenza contro l’invasione russa (che sta entrando in una fase più violenta). Erdogan aveva inizialmente traccheggiato, forse anche per la paura di rovinare le relazioni con la Russia di Vladimir Putin (con cui Ankara ha rapporti di competiton complessi), sicuramente per aspettare feedback dalla sua cerchia.

Nell’applicare i dettami della Convenzione di Montreux che regola i passaggi sul Bosforo (decisa proprio per bilanciamento di potere tra Russia e Turchia), la scelta di Erdogan è di carattere diplomatico, in equilibrio tra i commi della convenzione — l’articolo 19 nello specifico. Ma pone il turco sul piano percepibile di una posizione di campo, spostandosi — più che altro apparentemente —  verso la linea severissima presa nei conftonti di Putin dal blocco occidentale (Usa, Ue, Nato, e Paesi like-minded della Comunità internazionale).

Nelle stesse ore in cui Erdogan chiudeva gli stretti, ad Ankara i partiti dell’opposizione turca rilasciavano la loro tanto attesa piattaforma comune, le proposte per trasformare il sistema politico turco in un sistema parlamentare, cioè aprire il Paese. “Al fine di aumentare il potere di rappresentanza, per garantire l’equità della rappresentanza e la democrazia pluralistica, la soglia elettorale [per le elezioni parlamentari] sarà ridotta al 3 per cento”, hanno auspicato i rappresentati dei sei principali partiti dell’opposizione (fuori è restato il filo-curdo Hdp).

“Siamo determinati a costruire un sistema forte, liberale, democratico ed equo che stabilisca la separazione dei poteri con una legislatura efficace e partecipativa, un esecutivo stabile, trasparente e responsabile, una magistratura indipendente e imparziale”, dice il documento che compatta le storicamente frammentate opposizioni turche.

La sovrapposizione temporale potrebbe non essere casuale. Erdogan prima di prendere una decisione sul Bosforo avrebbe sondato accuratamente parti dell’establishment militare più incline all’Oriente russo-cinese ma anche eurasiatico, tendenzialmente critiche con l’Occidente e la Nato (e loro connessioni con la componente economico-produttiva e politica). Dopo aver ricevuto un semaforo verde parziale, potrebbe aver cercato un bilanciamento davanti alle pressioni delle opposizioni.

Non va dimenticato infatti che la dichiarazione di queste forze politiche ha avuto luogo sullo sfondo del crescente malcontento pubblico sull’economia, in particolare l’impennata dell’inflazione che ha raggiunto quasi il 50 per cento il mese scorso, che ha eroso la popolarità di Erdogan e del suo partito Akp. A questo punto, accettare con una mossa più di forma che di sostanza le pressioni sul Bosforo significa allontanare la sua immagine dal mondo putiniano, leader autoritario e simbolo di come il presidenzialismo che le opposizioni vogliono abolito possa prendere derive mostruose, e avvicinarla invece a quella dell’ucraino Volodymyr Zelensky, diventato simbolo della difesa delle Democrazie.

Mossa utile al consenso turco più che al conflitto ucraino, insomma. Tra l’altro, l’annuncio della decisone sul Bosforo segue una vittoria tattica della comunicazione di Erdogan, che con questo è riuscito a oscurare agli occhi dell’opinione pubblica internazionale l’allineamento delle opposizioni per chiedere la transizione democratica.

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