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Nancy Pelosi, la speaker della Camera dei Rappresentanti americana, si è recata in visita a Taipei il 2 e 3 agosto scorsi per incontrare i vertici politici locali, oltre ai quelli delle principali aziende di semiconduttori. Pechino ha reagito al viaggio della politica americana con una impressionante dimostrazione di forza. La Repubblica Popolare sta per invadere Taiwan?  Le imponenti esercitazioni militari, le più grandi di sempre, hanno scatenato questo tipo di timori.

L’ultima crisi nella regione (la terza) era avvenuta nel 1995-1996, quando la Repubblica Popolare aveva condotto una serie di lanci di missili nelle acque dello Stretto, la prima volta minacciando la leadership di Lee Teng-hui  e la seconda con l’intenzione di intimidire la popolazione di Formosa alla vigilia delle elezioni presidenziali.

A dire il vero diversi policymaker statunitensi sostengono già da prima del viaggio di Pelosi che Pechino si stia organizzando per l’annessione nel giro di un anno e mezzo.
Se molti analisti, politici e governi sono stati colti di sorpresa dall’invasione russa dell’Ucraina, è possibile identificare fattori premonitori che indichino o meno la scelta cinese? Forse sì.

La Federazione Russa ha cominciato a prepararsi contro gli shock esterni, cioè le sanzioni, dall’annessione della Crimea del 2014. Le misure adottate comprendevano l’accumulo di riserve internazionali, la diversificazione rispetto agli asset denominati in dollari e una politica fiscale conservatrice che aumentasse i risparmi, oltre alla riduzione della dipendenza dai prodotti esteri.

La strategia cinese attuale risulta molto simile a quella russa, ma andiamo con ordine, analizzando quali sarebbero gli indicatori di cui tenere conto. Un report appena pubblicato dal Csis, Center for strategic and internationa studies, distingue tra indicatori di breve termine (nell’ordine di settimane o mesi) e di medio-lungo termine (nell’ordine di anni). Cominciamo con quelli di lungo periodo.

Il quattordicesimo Piano Quinquennale 2021-2025 e i progetti come China Standards 2035 e la Dual Circulation Strategy (DCS) ruotano intorno all’autosufficienza tecnologica, produttiva e finanziaria cinese, così come tutta la politica di sviluppo di Xi.

Nei prossimi anni, a prescindere dal dossier Taiwan, la Repubblica Popolare cercherà di proseguire con il decoupling, il fenomeno di “slacciamento” delle catene del valore americane e cinesi iniziato sottotraccia dalla seconda amministrazione Obama ed esploso durante Trump. Aumenteranno le politiche per internazionalizzare il Renminbi in modo da ridurre la dipendenza dal dollaro. E’ previsto inoltre l’accumulo di risorse strategiche, soprattutto materie prime e input tecnologici.
Si rende obbligatorio per le entità statali abbandonare software di origine straniera e, naturalmente, si lanciano ambiziosi progetti di investimenti e prestiti a Paesi non allineati con Washington.

Di particolare interesse è inoltre la Dual Circulation Strategy, la quale prevede di sfruttare i mercati finanziari internazionali quando sia possibile ottenere vantaggi per le attività domestiche, per evitare una eccessiva dipendenza dall’economia globale (leggi, americana). Si inserisce qui la volontà di aumentare l’esposizione sulla Cina delle grosse aziende straniere, per aumentare il proprio potere negoziale.

Questi  elementi fanno pensare che la leadership stia preparando un intervento a Taiwan? Sì, ma non è così semplice. Esistono ulteriori indicatori di cui tenere conto, quelli a breve termine, che Pechino non ha attivato, almeno per ora.
Se Mosca prevedeva che gli Stati Uniti non sarebbero intervenuti direttamente in Ucraina, è estremamente probabile che lo faranno se la Cina dovesse attaccare Taiwan, data la posta in gioco. Questo è un fattore cruciale di cui tenere conto per comprendere l’importanza degli elementi che andiamo ora ad analizzare.

Per un confronto su Taiwan contro gli Stati Uniti e i loro alleati, il Giappone su tutti, Pechino potrebbe attuare una serie di manovre. Dovrebbe applicare uno stretto controllo transfrontaliero sui capitali, anche per prevenire la fuga delle élites, e porre restrizioni ai viaggi all’estero per lavoratori ad alta priorità, come ingegneri, tecnici, operai specializzati. Congelare gli asset finanziari stranieri sul proprio territorio e liquidare gli asset cinesi all’estero, inclusa la vendita dei bond americani.

Dovremmo osservare un aumento improvviso delle riserve di emergenza come energia e  medicinali, e la sospensione delle esportazioni di materiali critici come prodotti petroliferi, cibo e metalli, oltre alla distrazione di risorse dall’industria civile a quella militare.

Per essere efficaci, politiche di questo genere richiederebbero di essere messe in atto molto rapidamente, il che probabilmente si scontrerebbe con il sistema burocratico cinese, ancora piuttosto frammentato e decentralizzato. Inoltre più le misure vorranno essere complete, più aumenterà il numero di attori coinvolti, più sarà alto il rischio di venire scoperti.
E’ possibile in quest’ottica che Pechino preferisca la strada del segreto militare, per poi coinvolgere le burocrazie a ostilità iniziate, il che però esporrebbe maggiormente il Paese agli effetti più indesiderati del conflitto.

In conclusione, è possibile che la quarta crisi dello stretto di Taiwan, inaugurata dal viaggio di Nancy Pelosi, non sarà quella che ha scatenato la guerra nell’Indo-pacifico.
Il senso del viaggio della politica statunitense è quello di mostrare ai taiwanesi e agli alleati regionali che Taipei non sarà il prossimo Donbass, che l’America c’è e l’attenzione per l’area resta alta.
Dal canto suo, Xi Jinping non può evitare di mostrare i muscoli di fronte a tutto questo, soprattutto in vista del Congresso del Partito in autunno. Washington punta su questa scommessa: che la Repubblica Popolare non vada oltre alla provocazione.

(Photo by Timo Volz on Unsplash)

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Di Matteo Turato

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