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Perseverare diabolicum. Altro che salario minimo e cuneo fiscale. Ancora una volta, visto dall’estero, lo strappo agitato da Giuseppe Conte e quel che resta del Movimento Cinque Stelle si guadagna il crisma di una crisi internazionale. Un problema di spin ­– chissà che non c’entri la strana quiete di Rocco Casalino – che bussa alla porta di Palazzo Chigi alla vigilia della resa dei conti in Senato, quando i grillini faranno trattenere il respiro a Mario Draghi sul voto di fiducia al dl Aiuti, giovedì.

Capita così di sfogliare l’Economist e imbattersi in un puntuto corsivo sul “Putin effect” in Italia, cioè “l’ultima vittima delle divisioni sull’Ucraina”. Dove Conte viene presentato come l’ex premier che “spesso ha corteggiato Vladimir Putin” e di recente “insieme ai suoi parlamentari ha criticato l’invio di armi in Ucraina”. Non che la musica cambi altrove. Bloomberg ad esempio si affaccia sul cahiers de doleances grillino e ricorda l’avvocato come chi “ha messo in discussione il supporto militare di Roma all’Ucraina”.

La lista è lunga e indicativa dell’ennesimo tiro alla fune grillino che vuole restare dentro le mura domestiche, ma non ci riesce. È successo due settimane fa, quando la scissione di Luigi Di Maio e della sua pattuglia è stata raccontata dalla stampa internazionale – russa, ucraina, occidentale – come una “scissione atlantista” dovuta solo ed esclusivamente all’onda lunga della guerra fin dentro al partito. Una goduria per l’ex ministro e i suoi fedelissimi, oggi rinforzati dall’arrivo di un big fuoriuscito dal M5S, Emilio Carelli.

Come sempre la verità sta in mezzo. A differenza del braccio di ferro a giugno – quando il Movimento ha minacciato fino all’ultimo di votare contro la risoluzione del governo a favore del sostegno militare a Kiev – a questo giro sono altri i bollori che trascinano Conte e i suoi all’ennesima prova di forza (o di debolezza?) in aula. Eppure l’ombra di una crisi internazionale che cova a Roma non si staglia solo sulle pagine delle patinate riviste d’Oltreoceano, sempre pronte a randellare senza pietà la politica italiana. È un fatto dopotutto che il valzer grillino – dentro al governo, anzi fuori, anzi di lato – prometta di rallentare l’agenda diplomatica del governo Draghi, già fiaccata dalla calura estiva e da una campagna elettorale che ha scaldato i motori da un pezzo.

Il calendario non mente. Si parte dal nodo che sembrava sciolto un mese fa, il supporto di Roma a Volodymyr Zelensky e alla resistenza ucraina. Un impegno che Draghi ha preso solennemente ai tanti tavoli internazionali cui si è seduto nelle scorse settimane, dal summit della Nato a Madrid al G7 di Elmau.

Finora l’Italia non è mancata all’appello. L’ultimo rapporto del Kiel Institute for the World economy, think tank che aggiorna di continuo gli aiuti finanziari e militari occidentali diretti a Kiev, fa i conti in tasca anche a Palazzo Chigi. Dall’inizio della guerra, tra risorse per i profughi, munizioni, armi, aiuti economici, l’Italia ha stanziato circa 774 milioni di euro, conquistando l’ottavo posto tra i principali donatori.

Uno sforzo che prosegue dietro le quinte, a volte nel più assoluto silenzio. È il caso delle armi inviate da Roma a Kiev, la cui lista rimane segretata (un unicuum in Europa). L’ultimo decreto è atterrato al Copasir nei giorni scorsi e contiene quel che gli ucraini chiedono da tempo e che i pentastellati inizialmente volevano frenare: mezzi blindati armati, artiglieria pesante, equipaggiamento.

Ma nella valigetta diplomatica di Draghi non c’è solo la guerra in Ucraina. Desta qualche preoccupazione nella maggioranza, per dirne una, il destino del decreto Missioni che negli scorsi giorni ha iniziato il suo iter a Montecitorio. È il documento che deciderà la copertura finanziaria delle tante missioni internazionali che vedono l’Italia in prima linea, dall’Africa subsahariana alle missioni Nato in Iraq (di cui Roma ha assunto il comando) e sul fianco Est-europeo, rafforzato dopo l’invasione di Putin.

Con un governo costretto a un continuo stop-and-go in aula e a trascinarsi al tavolo delle trattative al primo sussulto del suo ex socio di maggioranza relativa, rispettare la tabella di marcia è una scommessa non da poco. Un freno a mano tirato che rischia di chiudere una finestra di credibilità che in questi mesi l’Italia si è ritagliata non senza fatica. Con il Regno Unito alle prese del post-Boris Johnson e una Francia guidata da un presidente, Emmanuel Macron, fortemente ridimensionato dall’ultima tornata elettorale, è anche e soprattutto a Roma che si decide la compattezza del fronte euro-atlantico, pronta al test decisivo dell’imminente, settimo pacchetto di sanzioni Ue contro il Cremlino. Vista l’aria che tira in questi giorni, tenere aperta quella finestra senza che vada in frantumi sarà una vera impresa.

Chi ride e chi piange per il valzer di Conte

Dietro il tiro alla fune interno una posta in gioco internazionale. L’ennesima crisi agitata dai Cinque Stelle e Conte tira il freno all’agenda internazionale del Paese. Il governo Draghi ha i numeri ma non i tempi. Dalle armi al sostegno finanziario, perché dal valzer grillino dipende anche il destino ucraino

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