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Se 147 Paesi su 193, con una percentuale del 76%, ha già riconosciuto lo Stato palestinese, vi sarà pure una ragione. E se a questa platea, alla fine dell’estate, si unirà la Francia, l’Inghilterra, e il Canada, e forse anche la stessa Germania, mentre la Spagna e l’Irlanda e la Norvegia già avevano adempiuto, allora per Israele la situazione rischia di diventare insostenibile.

L’elemento di novità è indubbiamente il nuovo atteggiamento dei Paesi occidentali, membri del G7: costretti, anche loro malgrado, a superare i sensi di colpa legati alla storia del 900. Culminati in quell’olocausto che ancora oggi ripugna alla coscienza civile e suona come un monito indimenticabile. La colpa principale di Netanyahu è stata quella di aver contribuito con la sua politica a sovrapporre a quel ricordo le efferatezze della politica condotta contro il popolo palestinese: oltre 60 mila morti, in prevalenza donne e bambini, e una popolazione di circa due milioni di persone lasciata in uno stato di carestia ed estrema privazione. Senza poi contare quel cumulo di macerie che è diventata la striscia di Gaza.

Quelle immagini, da inferno dantesco, trasmesse dai media di tutto il mondo, hanno scosso le coscienze civili, alimentato proteste e reazioni che spesso sono sconfinate nell’antisemitismo. A sua volta determinando reazioni dei pubblici poteri, come nel caso dell’Università Harvard, non sempre giustificate. Il tutto frutto di una spirale mortifera che deve essere fermata prima che sia troppo tardi. Con il passare dei giorni, infatti, il conto dei torti e delle ragioni diventa sempre più indeterminato. Il tempo attenua il senso di un antico orrore, come fu la mattanza di tanti giovani israeliani, ed esalta l’immagine di quelle piccole creature palestinesi che muoiono per inedia e denutrizione. Mentre si allarga quella faglia che un domani dovrebbe consentire ai due Stati, separati da un fiume di sangue, di vivere in pace.

L’errore di Benjamin Netanyahu, se così si può dire, è continuare a comportarsi come se Israele dovesse far fronte ad una guerra convenzionale. Due eserciti contrapposti, Hamas da un lato, le truppe con la stella di David dall’altro, con tanto di carri armati, aerei, missili e via dicendo. Ma non è questa la guerra che i due schieramenti stanno realmente combattendo. È invece guerra civile, con le caratteristiche tattiche e strategiche di questa guerra, sebbene combattuta da due distinte etnie. Che tuttavia sono mescolate, abitano gli stessi luoghi o quelli contigui. Hanno alle loro spalle un vissuto che li rende padroni di un più vasto schieramento di popolo.

Se poi a tutto questo si unisce il diverso credo religioso, le cose risultano ancora più complesse. La relativa inconciliabilità delle due posizioni rende ancora più aspro il semplice conflitto bellico. Spinge a soluzioni che un atteggiamento laico riterrebbe inaccettabile. Costringe ad opposti eccessi di crudeltà da parte di entrambi. Si spiega così la vicenda degli ostaggi, dal lato di Hamas: esibiti come trofeo per punire la tracotanza sionista. Come il blocco degli aiuti alimentari per costringere, cosa improbabile, Hamas alla capitolazione. In entrambi i casi l’utilizzo di vittime innocenti, per fini nobilitati.

L’esperienza storica del ‘900 insegna che le guerre civili si vincono solo se è la politica a guidare il fucile. Se la leadership civile prende il sopravvento su quella militare, fino a determinare una frattura tra gli irriducibili ed il resto del popolo. Cosi fu nel conflitto nord irlandese, che vide lo scontro tra i cattolici, nazionalisti e repubblicani, ed i protestanti dell’Ulster fedeli sudditi di Sua maestà britannica. Dopo alterne vicende, quel conflitto, sebbene di proporzioni infinitamente minore, che durava da oltre trent’anni, ebbe fine grazie all’intervento di Tony Blair, che nel frattempo era divenuto primo ministro del Regno Unito. Ma non tutti accettarono la pace. Il gruppo di Micky McKevitt, ex quartiermastro generale dell’Ira, non depose le armi, dando vita alla Real Ira. Ma ormai la politica era risultata dominante.

Far prevalere la politica sulle armi, ovviamente, è più facile a dirsi che a farsi. Ma non si deve disperare nemmeno di fronte ad un conflitto così duro e spietato, come quello tra Israele e la Palestina. La politica può vincere solo se a livello internazionale si scommette sulla pacificazione, contribuendo ad isolare gli estremisti dei due schieramenti. Da questo punto di vista la recente decisione della Lega Araba, che con la Dichiarazione di New York (firmata tra gli altri da Qatar, Arabia Saudita, Egitto, Giordania e Turchia) ha condannato, per la prima volta, gli attacchi del 7 ottobre, ed esortato la milizia palestinese a liberare gli ostaggi, cedere le armi all’Anp (Autorità nazionale palestinese) e rinunciare al dominio nella Striscia, é un primo passo lungo una strada finora accidentata.

Di concerto, la decisione dei Paesi del G7 a favore del prossimo riconoscimento della Stato palestinese, di cui si diceva all’inizio, si muove nella stessa direzione. Si tratta ovviamente di una presa di posizione tutta politica, dagli impossibili effetti pratici. Non esistendo un’entità statuale definita che possa essere riconosciuta. Suona di conseguenza come una moral suasion nei confronti di Israele e dei suoi più stretti alleati. Quel Donald Trump che non ha esitato a minacciare il Canada, con la promessa di maggiori dazi, nell’eventualità che quella decisione divenisse effettiva. E rispetto al quale i principali Paesi Occidentali hanno preso le distanze. Mostrando autonomia rispetto ad una politica che, anche sul piano interno (i più recenti sondaggi su Trump), sta mostrando i primi segni di logoramento.

Sarà sufficiente per smuovere le acque? Difficile rispondere. Non è infatti chiara quale sia la reale strategia di Netanyahu. Se egli voglia solo garantire l’esistenza di Israele o allargarne gli attuali confini, fino ad includere parte dei territori limitrofi. Di certo a questo pensano alcune forze della coalizione, che governano insieme alla Likud. Preoccupazione che ha spinto la Germania di Friedrich Merz ad una presa di posizione netta. Per bocca del suo ministro degli Esteri Johann Wadephul, ha dichiarato che “in vista delle aperte minacce di annessione da parte di alcuni membri del governo israeliano, un numero crescente di Paesi europei è pronto a riconoscere uno Stato di Palestina senza previe negoziazioni”. Insomma un cerchio che si stringe, nella speranza di porre fine ad un’orribile carneficina.

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La decisione dei Paesi del G7 a favore del prossimo riconoscimento della Stato palestinese è una presa di posizione tutta politica, dagli impossibili effetti pratici. Non esistendo un’entità statuale definita che possa essere riconosciuta. Suona di conseguenza come una moral suasion nei confronti di Israele e dei suoi più stretti alleati. Anche quel Donald Trump che non ha esitato a minacciare il Canada, con la promessa di maggiori dazi, nell’eventualità che quella scelta divenisse effettiva. L’analisi di Gianfranco Polillo

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