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Dietro la parabola del fallimento russo in Siria c’è una parola chiave: logistica. Lo si evince bene nel report pubblicato dall’United States Naval Institute, intitolato “Russia: From Glory to Disaster in Syria”, che analizzando in profondità la “Syrian express” (la rete di navi che per quasi un decennio ha collegato il porto russo di Novorossiysk e la base navale di Tartus, in Siria) fornisce una cartina al tornasole dell’evoluzione della postura russa nel Paese mediorientale, a partire dal suo intervento risalente all’autunno del 2015, fino alla caduta di Assad.

“L’analisi parte dall’assunzione che anche in contesti militari gli attori statali possano operare secondo logiche di efficienza economica e ottimizzazione delle risorse. Abbiamo quindi ipotizzato un comportamento pull-based, ovvero guidato dal fabbisogno reale del fronte operativo: le navi non si muovono secondo una pianificazione rigida (push), ma in risposta a una domanda effettiva di materiali e munizioni. In quest’ottica, ogni carico diventa parte di un ciclo di approvvigionamento adattivo, in cui anche i viaggi di ritorno assumono un valore strategico ed economico”, commenta per Formiche.net Cosimo Meneguzzo, uno degli autori del report. “Come nel settore civile — si pensi ai viaggi di riposizionamento delle navi da crociera che imbarcano passeggeri a tariffe ridotte per compensare costi inevitabili — anche la logistica russa ha probabilmente tentato di ridurre le perdite trasportando verso la Siria materiali utili al mantenimento delle basi di Tartus e Latakia, trasformando così un vincolo operativo in un margine di efficienza”.

Sfruttando immagini satellitari, dati dei trasponder dei vascelli coinvolti e registri civili, gli autori del report hanno ricostruito un flusso di oltre cento spedizioni comprese tra il 2018 e il 2024, con a bordo munizioni, blindati, sistemi Pantsir e S-300, camion Ural e missili Grad. Risorse impiegate per rafforzare le posizioni russe in Siria, ma di conseguenza anche la stabilità del regime di Assad.

Con un punto di svolta tanto netto quanto ovvio, ovvero l’inizio del conflitto in Ucraina. Con il progressivo spostamento dell’attenzione del Cremlino verso la guerra, il “Syrian Express” ha iniziato a rallentare. Le spedizioni, una ventina all’anno fino al 2020, si sono dimezzate nel giro di tre anni. Inoltre, si è verificata e anche un’inversione di tendenza alquanto esplicativa, con i cargo russi che partivano da Tartus carichi, non più scarichi. Segno che Mosca stava riportando a casa uomini e mezzi, sottraendoli alla difesa del regime di Assad. Che alla fine, privo di sufficiente sostegno, non è riuscito a resistere all’offensiva dei ribelli, che al contrario hanno sfruttato il continuo sostegno della Turchia per potenziare le proprie capacità.

“Tutta la stampa e i commentatori hanno dato per scontato che la caduta del regime di Assad fosse dovuta alla ritirata russa, oppure che Mosca avesse semplicemente lasciato il regime siriano a se stesso. Ma qual è la verità? La verità è che non si è trattato né dell’una né dell’altra cosa. Il Cremlino, molto probabilmente, non voleva che Assad cadesse, ma non poteva neppure mantenere il livello di impegno militare dimostrato in precedenza in Siria”, commenta Giangiuseppe Pili, un altro degli autori del report, a Formiche.net. “Il risultato è stato un compromesso: cercare di rimanere attivi nel teatro siriano, ma al tempo stesso spostare parte degli armamenti e del personale verso il fronte ucraino. A posteriori, sappiamo com’è andata. Il regime di Assad è riuscito a mantenersi in piedi fino a quando le forze ribelli hanno ripreso l’iniziativa, scoprendo che la resistenza era ormai minima. Dal punto di vista di Mosca, quell’indecisione è stata pagata cara”.

Quello che era nato come il simbolo della proiezione di potenza russa nel Mediterraneo si è alla fine trasformato in un caso di scuola sulla vulnerabilità delle catene logistiche militari. Una lezione per gli strateghi della comunità transatlantica, e non solo.

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