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Un libro de La Civiltà Cattolica non si legge mezza giornata. Un libro de La Civiltà Cattolica su Pasolini non si può leggere neanche una volta sola per poter dire di aver capito. Troppo rilevante la fonte, troppo complesso il tema. Ma quel che si può dire avendolo visto è che colpisce il metodo scelto dedicando questo fascicolo monografico della collana Accenti a Pasolini. La rivista diretta da padre Antonio Spadaro infatti ha scelto di soffermarsi su questo autore che non passa, ma in certo senso sempre ritorna nei nodi di questo tempo che continuando a mutare sempre trova in Pasolini un lettore diverso, un contraddittorio anticipatore di contraddizioni, anche ora che siamo arrivati al centenario della sua nascita.

Pier Paolo Pasolini infatti nacque il 5 marzo del 1922, morendo tragicamente il 2 novembre 1975. Pensare a questo oggi fa pensare a quanto si sia perso con la sua prematura scomparsa? Io credo di sì, perché Pasolini, spesso acclamato come “visionario”, lo era perché “complesso”: in questo soprattutto è stato visionario di un tempo che avrebbe temuto le diversità.

Del volume che La Civiltà Cattolica dedica a Pasolini dunque colpisce il metodo: sembra quasi che la rivista dei gesuiti voglia sottolineare e apprezzare l’idea di essersi contraddetta, di aver espresso posizioni difformi nel corso del tempo. Scrive padre Antonio Spadaro nella presentazione del volume: “Abbiamo scelto di presenta- re i saggi sulla sua opera nell’ordine in cui sono apparsi su La Civiltà Cattolica. La raccolta è completata da un’Appendice di recensioni di volumi che a vari livelli hanno trattato del poeta di Casarsa. L’ordine cronologico permette di osservare l’evoluzione dello sguardo della rivista sull’opera di Pasolini; ed è significativo che il primo e l’ultimo articolo che ripubblichiamo si occupino entrambi, con toni e valutazioni del tutto differenti, delle poesie della raccolta La religione del mio tempo. Se per un deluso e disgustato p. Giuseppe De Rosa (1961) è del tutto evidente come Pasolini sia un «poeta mancato», per p. Virgilio Fantuzzi (che scrive questo saggio nel 2015, anche se sulla rivista è apparso postumo) egli «è un poeta che ha detto tutto di sé nelle sue poesie» e ritiene che la parte più alta e profonda della sua opera sia proprio la poesia”.

Questo metodo appare come la scelta più semplice, e invece è probabilmente l’aspetto più rilevante dell’opera. Perché attraverso la riproposizione di questi articoli si ha modo di capire Pasolini con noi, non senza o contro di noi. Paolini capito come venne capito all’inizio spiega molto di dove eravamo e come siamo diventati più avanti, anche grazie a lui. Scoprirlo negli scritti di La Civiltà Cattolica è allora un esempio, un esempio importante. Ci sarebbero altre antologie da fare, per immergersi in altri percorsi, magari simili, magari molto diversi, magari opposti.

Antonio Spadaro propone una frase di un Pasolini non dissacratore all’inizio del suo testo, tratta da una lettera che scrisse nel 1963 e riferita alla preparazione del suo Vangelo secondo Matteo: “Vorrei che le mie esigenze espressive, la mia ispirazione poetica, non contraddicessero mai la vostra sensibilità di credenti. Perché altrimenti non raggiungerei il mio scopo di riproporre a tutti una vita che è modello – sia pure irraggiungibile – per tutti”.

Questa frase è di enorme importanza, lo capisce chiunque: non si tratta di togliere, ma di aggiungere. Vale probabilmente per la frase che apparentemente è di segno opposto e che tempo fa mi colpì particolarmente: Pasolini la scrisse non a un amico, ma in Scritti corsari: “Da’ a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio é […] Cristo non poteva in alcun modo voler dire: accontenta questo e quello, concilia la praticità della vita sociale e l’assolutezza di quella religiosa, da’ un colpo al cerchio e uno alla botte ecc. Al contrario- in assoluta coerenza con tutta la sua predicazione- non poteva che vuole dire: distingui nettamente tra Cesare e Dio, non confonderli: non farli coesistere qualunquisticamente con la scusa di poter servire meglio Dio: non conciliarli: ricorda che il mio «e» è disgiuntivo, crea due universi non comunicanti, o se mai, contrastanti: insomma, lo ripeto, inconciliabili”.
Chi ama il Pasolini graffiante, corrosivo, il provocatore, qui forse si trova più a suo agio, ma nella frase scelta da padre Spadaro non c’è forse la stessa “tensione”? Io non voglio, sembra dirvi Pasolini, togliere a certuni per dare ad altri, ma allargare l’angolo, forse più di quanto io possa da solo, e per questo chiedeva aiuto alla persona a cui scriveva, volontario di Pro Civitate Christiana.
Così diviene decisiva, soprattutto se si considera il tempo in cui siamo, la frase conclusiva della breve presentazione del direttore: “La differenza di posizioni che gli autori, in epoche diverse, hanno assunto nei confronti dell’opera di Pier Paolo Pasolini testimonia il rovello critico di una rivista viva, capace anche di mutare parere, se necessario, o di approfondirlo meglio. Ma è anche specchio dei tempi che mutano e delle istanze critiche che questo mutare porta con sé”.

Eccoci allora al 1961, con le parole disgustate di padre de Rosa: “È «poesia» quella del Pasolini? Se dovessimo seguire i nostri gusti, diremmo di no: a parte un fastidioso ermetismo che rende incomprensibile ai comuni mortali la maggior parte della produzione poetica pasoliniana, vi troviamo molto «realismo», questo sì, ma poca «poesia».”

Non si può dire che non sia chiaro, come il punto d’arrivo della critica a chi premiò le poesie di Pasolini: la Giuria ha rilevato con piacere che questa raccolta rappresenta per alcuni suoi risultati una sostanziale novità negli operati sia delle precedenti esperienze dell’autore, sia della situazione poetica attuale. Questo giudizio, francamente, ci lascia di stucco. I valentuomini componenti la giuria – Flora, Curci, Debenedetti, Folgore, Lazzaroni, Picone Stella, Repaci, Spagnoletti, Vigorelli, Villaroel – hanno letto il volume del Pasolini prima di sottoscrivere un giudizio così entusiasta e laudativo, in cui non appare l’ombra di una critica? Se sì, siamo costretti a pensare che l’assegnazione di certi premi, in Italia, segue criteri non propriamente letterari ed artistici, perché non possiamo credere che critici e poeti che stimiamo abbiano inteso premiare un «poeta mancato».”

Passano molti anni, arriviamo al 2016, quando padre Fantuzzi ha scritto: “Nel 1964, quando uscì Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, ero studente di Teologia. Vidi il film in una proiezione privata, perché allora non era consentito ai sacerdoti e ai religiosi, compresi i seminaristi, di frequentare le sale cinematografiche pubbliche, nemmeno per vedere pellicole di elevato contenuto artistico e culturale. Avevo cominciato da qualche anno a occuparmi seriamente di cinema. Il preside di una scuola, presso la quale insegnavo, mi aveva incaricato di impartire un corso di Educazione cinematografica ai ragazzi delle medie. Una materia nuova, nella quale cercavo di addentrarmi camminando in punta di piedi. La visione del Vangelo mi provocò un autentico shock. Seguace delle idee di Carlo Ludovico Ragghianti, pensavo, come lui, che il cinema rappresentasse lo stadio più avanzato nell’evoluzione plurisecolare delle arti visive. Nel corso degli anni Cinquanta mi ero appassionato alla discussione sui rapporti tra arte sacra e arte moderna. Detestavo il kitsch nel quale si crogiolava l’arte delle chiese, prolungando oltre il limite del tollerabile il gusto oleografico di fine Ottocento. Il sacro e il moderno, secondo me, si fondevano perfettamente nella pittura di Rouault. Nel cinema non mi era mai capitato prima — e neppure dopo, a dire il vero — di vedere un’opera nella quale il senso del sacro e la sensibilità moderna formassero un amalgama altrettanto compatto. Per me, seminarista, la visione di quel film, oltre a mettermi l’animo in subbuglio per il tono di autenticità che emanava dalle sue immagini, costituiva anche un problema. Durante la conferenza stampa che aveva accompagnato la prima proiezione del film alla Mostra di Venezia, un giornalista aveva chiesto a Pasolini: «Lei crede che Gesù sia il Figlio di Dio?». Il regista aveva risposto di no. Al contrario di quello che si diceva, e che lo stesso Pasolini non negava, ritenevo che un artista, un cineasta, un poeta che non avesse avuto nemmeno un briciolo di fede, non avrebbe potuto realizzare un film sul Vangelo, libro di fede per eccellenza, dotato di una tale forza espressiva”.

In mezzo, tra questi punti d’inizio e d’arrivo, spicca la novità che consente il percorso, l’opera di padre Bargagli. È evidente che senza l’inizio non si coglierebbe il valore profondo di un testo che a mio avviso emerge quando ci ripropone una recensione di padre Fernando Castelli, scritta nel 2008: “A parere dell’A., «la sua [di Pasolini] ideologia o meglio la sua Weltanshauung, la sua composizione morale, etica e poetica, è basata sulla cultura e sulla tradizione sacra della vita italiana legata alla terra» . All’interno di questa formazione storico-familiare-religiosa entrano elementi desunti da Marx, da Gramsci, da Freud e dal Vangelo. Il Vangelo è «l’unico grande testo sacro ispiratore della sua vita»”. Se si conviene che gli ultimi tempi sono spesi in molti contesti a togliere più che ad aggiungere, si converrà anche con l’idea che questo tratto di Pasolini sia decisivo.

(Foto Umberto Pizzi. Riproduzione riservata)

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Il centenario della nascita di Pasolini merita un libro. Esce quello di Civiltà Cattolica

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