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Su Formiche.net del 20 giugno abbiamo ricordato come la dodicesima conferenza ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc, più conosciuta con l’acronimo inglese Wto) sia stata, nonostante le aspettative della vigilia, un successo.

Il giorno successivo un editoriale dell’Istituto Bruno Leoni (Ibl) ha ricordato come la globalizzazione sia finita e che questo è ormai una specie di luogo comune. Per questo ha sorpreso molto l’intervista del Financial Times con il numero uno di Maersk, Søren Skou, per cui “il commercio internazionale sta dove sta. Può crescere più o meno a seconda di come va il Pil. Non ci sono ulteriori liberalizzazioni in vista, quindi non vedremo ancora più crescita. Ma non sta neppure entrando in crisi”.

L’esperienza della seconda compagnia di shipping al mondo, commenta il Bruno Leoni, “conferma che, a dispetto delle tante profezie di sventura, le imprese hanno ancora ben chiare le ragioni per cui gli scambi internazionali nel corso degli anni si sono fatti sempre più fitti”. Mentre “non vediamo i nostri clienti rimpatriare le produzioni verso l’Europa”, aggiunge invece Skou. “È molto difficile che nel breve termine, o anche nel medio, ci sarà un vasto cambiamento nel modo in cui il mondo produce i beni di consumo”.

Ancora il 21 giugno su lavoce@info, un breve saggio di Andrea Goldstein e Mauro Pisu sottolinea che “il commercio internazionale di beni ha ripreso a crescere rapidamente dopo il crollo nel secondo trimestre del 2020 dovuto alla pandemia (-10 per cento rispetto al quarto trimestre del 2019) e nei primi tre mesi del 2022 è stato circa 8% al di sopra del livello pre-pandemia. Le catene globali del valore, che pure sono state danneggiate dal Covid-19, hanno giocato un ruolo fondamentale per superare l’emergenza e anche laddove la natura globale della segmentazione e specializzazione dei processi industriali ha generato obiettive criticità, come nella farmaceutica, è difficile immaginare che lo sviluppo e produzione a tempo di record dei vaccini contro il virus sarebbe stato possibile senza catene di valore regionali. Inoltre, l’evidenza empirica suggerisce che paesi e regioni più integrati nell’economia globale, pur essendo esposti a rischi esterni, si riprendono più rapidamente da crisi economiche e catastrofi naturali”.

“Questi dati e considerazioni”, aggiungono, “mostrano la resilienza e capacità di adattamento degli scambi internazionali e delle catene globali di valore e il loro contributo alla ripresa economica post-Covid. Se ne potrebbe concludere che la globalizzazione (riferendoci con questo termine allo scambio di beni, servizi e capitali tra vari paesi) è in piena salute e che i suoi effetti sono sempre e comunque positivi e ben accetti. Sarebbe, a dire il vero, una conclusione semplicistica e anche contro-producente”.

Tuttavia, un crescente disagio si manifesta in molti Paesi e strati sociali verso la globalizzazione, ritenuta responsabile di disuguaglianza, impoverimento delle zone rurali e delle isole, de-industrializzazione, evasione fiscale, riciclaggio internazionale di denaro sporco, perdita di sovranità economica e politica. Si tratta di problemi reali, non immaginari, documentati da molti studi e in diversi Paesi. I flussi finanziari verso i paradisi fiscali sottraggono importanti risorse ai governi nazionali e troppo spesso proteggono guadagni illeciti. La globalizzazione è poi associata all’immigrazione irregolare e all’aumento percepito della criminalità. Improvvisi e massicci flussi migratori, anche se provenienti da paesi con valori religiosi e norme comportamentali simili, possono creare problemi di integrazione non semplici da superare.

Una proposta interessante viene formulata su The Economist del 17-24 giugno: moderare la globalizzazione della “efficienza” con quella della “resilienza”. La prima insegue dove e come produrre a costi più bassi per poi vendere a prezzi (ed utili di impresa) più alti, anche se in certi casi – lo constatiamo oggi con il gas ed il petrolio dalla Russia – con la globalizzazione della resilienza che si basa su rapporti produttivi e diversificati di lungo periodo. Stabilire rapporti produttivi e diversificati richiede tempo e comporta negoziati lunghi e non sempre facile.

Ed è indubbiamente una strada da percorrere, cercando, però, di evitare di intaccare eccessivamente i due principi che dalla fine della seconda guerra mondiale hanno consentito la liberalizzazione e la espansione degli scambi: le due regole della non-discriminazione e della reciprocità le due regole della non-discriminazione e della reciprocità. Il trattato del Wto contiene già deroghe ben modulate per i Paesi in via di sviluppo (è difficile comprendere perché ne benefici la Cina, uno dei maggiori esportatori mondiali).

Naturalmente, l’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina, con le implicazioni in materia di logistica e di commercio di cereali, minaccia un’altra grave battuta d’arresto alla integrazione economiche internazionale. Ed è anche, però, un ammonimento: una strategia di diversificazione e resilienza rende più difficile ad autocrazie e dittature esercitare ricatti (quali quelli che sta mettendo in opera la Federazione Russa).

Ecco la strada per l'integrazione economica internazionale

Moderare la globalizzazione della efficienza con quella della resilienza, una strada che vale la pena percorrere. Ma cercando di evitare due principi molto chiari, sanciti dalla fine della seconda guerra mondiale. La riflessione di Giuseppe Pennisi

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